“Beati gli Operatori di Pace”
“La pace del cuore è il Paradiso dell’uomo” (Platone)
Premessa
La trasparenza di chi comunica deve risultare e risaltare dallo spazio e dall’importanza riservati nei confronti della verità, presupposto ed “anticamera” di una vera condizione di pace. Un consacrato non può mai ignorare di essere un mezzo di comunicazione dei valori del Vangelo, un testimone di Cristo. Tra questi, via maestra può essere definito “il discorso del monte”. Gesù lo pronunciò su una delle alture che digradano sul lago nei pressi di Cafarnao. Il “maestro” elenca le beatitudini seduto davanti ai discepoli e alla gente che, incuriosita, si era ivi radunata. Ad essi – espone la nuova legge del regno di Dio da armonizzare con quella antica, – anch’essa proclamata da un monte, il Sinai. Gesù alla gente stupita parla, invece, di amore e di familiarità col Padre, che si prende cura dei propri figli più di quanto ne abbia per i gigli del campo o per gli uccelli dell’aria. Gesù spiega che la nuova Legge non abroga l’antica, ma ha lo scopo, piuttosto, di esaltarne il significato. Ecco le Beatitudini, enunciazioni di comportamenti etici da mettere in atto non in vista di una ricompensa terrena, ma di una gioia interiore che proviene dalla consapevolezza di agire bene, perché i figli diventino progressivamente sempre più degni del Padre: «Voi, dunque, siate perfetti come il Padre celeste…» (Mt 5, 48).
Le Beatitudini
Due sono gli evangelisti che raccontano questa pagina della predicazione di Gesù: Luca (6, 20-22) e Matteo (5, 3-10). Luca cita quattro beatitudini (povertà, fame, dolore, persecuzione) cui seguono altrettante minacce (ai ricchi, ai sazi, ai gaudenti, ai falsi profeti). Matteo, invece, ne elenca otto e lo fa in modo impersonale («Beati i…»), laddove Luca le personalizza («Beati voi…»). Siano quattro, personalizzate, oppure otto – impersonali – , le beatitudini più che delle virtù (come spesso sono state pensate) vanno viste come delle attitudini, degli “abiti” fondamentali, degli ideali da perseguire per sentirsi degni figli del Padre celeste e veri discepoli di Cristo.
La Beatitudine della pace
È, secondo Matteo, la settima, mentre non è contemplata nelle quattro lucane.
Chi opera per la pace («operatore di pace…») vuole instaurare e rinsaldare l’armonia tra Dio e gli uomini e tra uomo e uomo. Il peccato originale ruppe quest’armonia e rese necessaria una riconciliazione attraverso il Messia, il quale – appunto – portò la pace dell’anima a tutti quelli che vollero riceverlo. La pace fu il frutto prezioso della sua passione e morte. Per questo e per avere insegnato ai discepoli ad augurare la pace a tutti coloro con i quali venivano a contatto, egli fu il primo «operatore di pace», salutando con la dolce espressione «Pace a voi!». L’apostolo Paolo usò il medesimo augurio del Maestro nelle lettere inviate alle varie comunità che si venivano formando nel nome di Cristo.
La pace è una delle opere – dice s. Paolo – dello Spirito Santo: «Amore, gioia, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé, pace» (Gal 5, 22). Le opere dello Spirito costruiscono la fraternità perché sono situazioni personali che rivelano la carica positiva in presenza di altri. In particolare la pace, argomento di questo “incontro”, è eredità del Signore (Gv 14, 27; 16, 33), è dono da offrire (Mt 10,12; Lc 10, 5), è impegno reciproco (Rm 12, 18); è vocazione comune (Col 3, 15); è componente del regno (Rm 14, 17).
La pace nella pericope matteana
Nelle parole di Matteo circa la pace traspaiono la gioia e la luce tipiche dell’inizio della predicazione di Gesù, unitamente ad una promessa di consolazione che anticipa il regno di Dio. Questa caratteristica di pace, di luce, di gioia e di consolazione hanno da sempre affascinato milioni di uomini, anche non cristiani, come ad esempio il Mahatma Gandhi, che intendeva le beatitudini come invito alla conversione interiore senza la quale non si può instaurare non dico il regno di Dio, ma una nuova etica a carattere individuale, di gruppo, sociale. Qui entra necessariamente l’irrinunciabilità di una lunga, paziente ed appassionata opera di evangelizzazione non disgiunta da un’azione educatrice e formativa, da espletare nei luoghi deputati, anzitutto nella famiglia e nella scuola, ma ovunque, anche coinvolgendo i mezzi di comunicazione di massa e la rete.
I costruttori di pace
Per educare alla pace occorre vivere nella pace di Dio, consistente nella comunione armoniosa delle tre persone divine. Non è casuale che lo Spirito Santo e la pace condividano il medesimo simbolo: la colomba, la stessa che ritornò da Noè, che l’attendeva sull’arca, con un ramoscello d’ulivo nel becco. La pace è l’antidoto, l’anticorpo dell’odio e dell’inimicizia. Agostino la definì «tranquillità dell’ordine». Ovidio scrisse «Candida pax nomine, trux decet ira feras» (agli uomini si addice la candida pace, la truce ira alle belve)[1]. Per il nostro Alighieri essa è «quel mare al qual tutto si move»[2] e Pascal, riprendendo la metafora dantesca, «per una goccia che cade è tutto l’oceano che s’innalza». Il Poverello d’Assisi additava l’esempio di Cristo, crocifisso per amore e per instillare la pace nel cuore degli uomini. Ma affinché la profezia della pace si avveri ci vogliono cuori pacificati, pronti al dialogo, all’incontro, a sotterrare “l’ascia di guerra” e a porgere l’ulivo: i “costruttori di pace”, appunto, che saranno “beati”.
Spiritualità delle Piccole Suore della Divina Provvidenza
Dal 2012 ad oggi le “figlie” di Madre Teresa Michel hanno svolto, personalmente e con il contributo di due “specialisti”, un’attenta riflessione sulle Beatitudini evangeliche nell’esperienza della Fondatrice, la cui “esemplarità – dice suor Maria Tamburano – ci aiuta ad approfondire il loro valore teologico, ma anche l’applicazione al profilo della beata T. Michel, facilitando il nostro coinvolgimento a vivere in concretezza, per un innato desiderio di pace […] che ha origine e fine in Dio […]. Madre Michel aveva un cuore ricolmo di pace: lo si vedeva dallo sguardo, vero specchio dell’anima […]. Era anche instancabile nel fare opere di pace, spronando le suore a mettere ordine nella propria vita e a dedicare tutte le energie verso gli altri…”.
La beatitudine della pace in Madre Michel, operatrice di pace
Oltre al ritratto appena abbozzato della fondatrice, le sue lettere anche in questa circostanza sono di valido aiuto per scandagliare non solo nel suo animo, ma per cercare i riscontri al suo sentire nei confronti di questa opera dello Spirito Santo. Di volta in volta, in questa ventina di sue lettere, che risultano inviate dal 1898 al dicembre del 1937, cioè per una quarantina d’anni, alle sue consorelle Teresa, Amalia, Agnese, Domenica, Camilla, Cherubina, Palmira, Cecilia, Maria, oltre ad una lettera circolare (del 1937), a don Orione (senza data) ed al vescovo (sine nomine et sine data), si manifestano le varie accezioni, i vari accenti con i quali la scrivente intendeva e descriveva la 7ª beatitudine ed in qual modo dovesse essere vissuta per riempirla di significativo spessore.
Dalla sua tavolozza, Madre Michel attinge questa gamma cromatica: pace interiore; pace nel piccolo gruppo e nella comunità (rapporti interpersonali); pace come atteggiamento (abito) di mite arrendevolezza; pace come prerequisito per affrontare la vita religiosa; pace come sanatoria per i litigi e le incomprensioni; pace sempre inscindibile dalla carità e dal servizio a Dio e agli uomini; pace come premio ai sacrifici, all’abnegazione, alle mortificazioni, anche involontarie, subite; pace come bene supremo sulla terra; pace che solo Gesù può dare. Scrive, in proposito alla sua carissima suor Agnese: «Oh, figlia mia! Ti dirò ancora e sempre: fidati di Lui, e non sarai delusa. Egli ha promesso la pace agli uomini di buona volontà e se tu hai questa buona volontà, vuoi che manchi alla Sua promessa?» (da Alessandria, 2/1/1917). Certamente no, specialmente osservando il voto dell’obbedienza, «perché è solo coll’obbedienza che potrai trovare la pace e quell’intima unione con Dio che ce la procura…» (A sr. Camilla, 12/5/1926). Altre volte, quasi pregando, scrive che solo «Gesù Sacramentato può ridonare la pace, l’amore, la felicità alla società presente! Egli deve regnare da assoluto padrone nel nuovo secolo che incomincia…» (stessa destinataria, inizio 1999).
Una sorta di confessione è la lettera scritta da Rio de Janeiro al «Molto reverendo padre (don Orione), per pregarlo di continuare l’opera di Superiore e Padre […] per queste mie Suore [per le quali] ho bisogno di una parola sua d’incoraggiamento, per sollevarne il morale […]. È vero che dobbiamo umiliarci tanto […] ma una parola d’incoraggiamento e di conforto d’un Superiore vuol dire tanto per compiere l’opera di riunire e pacificare tutti i cuori, che devono lavorare e servire nella medesima vigna…» (s. data).
A suor Cecilia dà questo materno consiglio: «Siate buone, più buone che giuste, perché la carità copre tutti i difetti, e conserva la pace che deve sempre regnare nella Comunità» (20/6/1928).
La Madre soffriva, temeva per la dirittura religiosa, per la serenità delle ‘figlie’ che per debolezza ed inesperienza avrebbero potuto sbagliare. Ciò le ispirò una preghiera, nella quale – tra l’altro – diceva: «Gesù, quante anime in quest’istante senz’appoggio, senza forza, stanno sul punto di cedere alla tentazione violenta. Invia loro un angelo che faccia scendere su si esse un po’ di gioia, un po’ di pace. Che quest’angelo sia una figlia della tua Divina Provvidenza…».
Conclusione
Bella questa preghiera che nulla toglie, anzi!, all’habitus della combattente della pace. Evoca la “Pulzella d’Orléans, a santa Giovanna d’Arco, la quale con la medesima ispirazione pregava e si copriva dell’armatura per andare a combattere per il bene della sua Patria. Non a caso, e lo dico concludendo, il volto della pace che si svela è quello di una discepola radicata in Cristo che, all’occorrenza, la farà testimone (anche scomodo) del suo tempo, capace di lottare, perfino, affinché il mondo recuperi la bellezza, la santità, l’armonia pacifica al quale Dio l’aveva destinata.
+ Vincenzo Bertolone
Arcivescovo Metropolita di Catanzaro – Squillace
[1] Publio Ovidio Nasone, Ars amandi, 3, 502.
[2] Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, III, 86.