Ospedaletto “S. Antonio” – Villa del Bosco

VILLA DEL BOSCO (BI) – 13868

Via Torino n. 89

tel. 0163 860623

l’Ospedaletto  e la Chiesa “S. Antonio” restaurati

UN PO’ DI STORIA

Si racconta che Madre Michel scelse la “filiale” di Villa del Bosco, per manifesta disposizione della Divina Provvidenza in un luogo solitario, tra i boschi. Suor Maria Immacolata Gilet, collaboratrice di M. Michel, aveva sentito dire che tra quei boschi, nei contrafforti delle Alpi che separano Biella dalla pianura vercellese, era in vendita un castello diroccato, proprio quello che poteva servire a ospizio per ragazzi e a colonia agricola. Le due suore si misero in cammino, compiendo il lungo viaggio da Alessandria, questuando e portando con loro sul carrettino anche due ammalati che avevano raccolto sulla strada, attraversando le colline del Monferrato e le risaie del vercellese. L’asinello marcava il passo allo snocciolare del Rosario che le pellegrine recitavano ad alta voce tutto il giorno. Qualche volta l’animale si impennava per non perdere tutta la proverbiale pazienza. Qualcuno aveva suggerito, come rimedio contro quella specie di stanchezza, un po’ di vino. Cosicché le donne davano il vino all’asino e bevevano esse l’acqua, ma siccome il rimedio faceva troppo effetto, erano costrette a correre dietro all’animale o a salire sul carro. Il castello cercato era quello di Lozzolo annotato nella guida come “rovine del castello di S. Lorenzo”. Evidentemente quelle rovine non erano utilizzabili neppure ai poveri del piccolo Ricovero. Tutt’al più le due donne, se avessero avuto tempo a interessarsi alla storia, avrebbero potuto desiderare quel luogo per riconsacrarlo, poiché è tradizione che là si fosse accampato nel 1304 con i suoi duemila seguaci l’eretico fra Dolcino. Ma al castello la carovana della carità non giunse, poiché avevano sbagliato strada, prendendo quella che da Gattinara porta a Biella. Quando l’asinello si trovò a un quadrivio (ancora oggi chiamato “Quattro strade”) si fermò di botto e attese indicazioni. Il quadrivio assume un’importanza fondamentale, perché la Divina Provvidenza indicò alla Madre la grotta in cui ripararsi. Si faceva sera e alcune nubi promettevano un tipico temporale biellese. Alla domanda su quale direzione prendere rispose una terza donna, comparsa quasi d’improvviso. Era una ex suora che proprio in quei giorni tornava ai suoi monti da Milano col cuore pieno di tristezza. Aveva deposto l’abito perché la sua piccola comunità era stata sciolta in seguito a fatti dolorosi, travisati da una campagna anticlericale. “Potete ripararvi in una casa di Villa”, disse alle sconosciute, “Vi accompagnerò io stessa dovendo passare di là; venite è una specie di capanna dove i contadini si riparano con gli armenti quando li coglie la pioggia”.

LA PRIMA CASA DI S. ANTONIO: COME È NATA E QUALI RISPOSTE HA DATO AL TERRITORIO

Uno dei primi figli raccolti da Madre Michel nella sua casa era Alfredo, che conduceva l’asinello per la accolta della Provvidenza. Alfredo racconta: “A Villa del Bosco v’era una casetta di tre camere che fungeva da asilo per bimbi: essa divenne presto un ricovero per tutti. L’edificio fu ingrandito in poco tempo e fornito delle attrezzature necessarie. Con l’asinello si portavano i materiali ai muratori.” Nel piccolo e fatiscente fabbricato alloggiavano i bambini soli e abbandonati, ma l’opera ben presto si sviluppò e le persone in stato di bisogno si moltiplicarono rapidamente. La casa di Sant’Antonio prestò soccorso a bambini orfani, giovani sbandati, anziani soli e abbandonati, adulti e famiglie in stato di bisogno e diventò, come tutti poi presero a chiamarlo, l’ “Ospedaletto”, un luogo in cui veniva raccolto e assistito il “rifiuto” degli ospedali e degli altri ricoveri. Organizzando il Piccolo Ricovero di Sant’Antonio, non si era pensato di preparare una camera d’isolamento per le malattie infettive. Quando il primo caso si verificò e il medico ordinò di isolare il piccolo malato, Madre Michel risolse il problema rapidamente: mise il piccolo a dormire nel suo letto e lei si adattò alla meglio sulla poltrona. Le cronache dell’epoca riportano un simpatico episodio. Si racconta che nel 1926 si svolsedi una grande festa a cui parteciparono i notabili della zona, le autorità della Provincia e parecchi industriali biellesi. Dopo le funzioni religiose e il suntuoso pranzo con duecento invitati, si svolse una lotteria, di cui il primo premio era una “bambola parlante”. Quando l’On. Buratti, fortunato possessore del biglietto vincente, apre lo scatolone che gli viene consegnato, vi trova all’interno una graziosa bimba di dieci anni la quale, con molto garbo, lo invita a donare una generosa offerta per l’ampliamento e la ristrutturazione dell’Ospedaletto di San’Antonio. L’Ospedaletto di Sant’Antonio nasce quindi come luogo di accoglienza per le persone rifiutate dagli altri ospedali e di assistenza agli infermi, ma è anche asilo infantile e oratorio festivo. Le suore provvedono alla pulizia della chiesa e si occupano anche della questua e dell’assistenza a domicilio degli ammalati. Riescono anche, per un certo periodo, ad organizzare una scuola di ricamo, poi chiusa.

LA TESTIMONIANZA DI MARIUCCIA CASTELLAZZO (a cura di Piero Ferrari)

 Quasi per tre quarti di secolo Mariuccia Castellazzo è stata ospite delle istituzioni micheline. Nata a Biella nel 1920 è deceduta il 13 maggio 2010. Il suo caso fu segnalato da una benefattrice a Teresa Michel che era andata alla questua in quella città. All’età di quattro anni – è lei che lo scrive – fu presa tra le braccia della signora Madre e portata all’Ospedaletto S. Antonio a Villa del Bosco. Vi tornò dopo una breve permanenza a Quargnento, passò nella Casa S. Rita nel 1939, quando avvenne il trasloco nel nuovo edificio, e là vi rimase per sempre. Intelligente e sensibile, anche se priva di cultura, Mariuccia ha assorbito lo spirito dell’Opera michelina, fatto di ottimismo, di semplicità, di candore ingenuo e bonario, di sconfinato abbandono alla Divina Provvidenza. Ciò che traspare maggiormente dalla sua testimonianza e che colpisce di più è il rapporto che si era stabilito tra la Madre e le sue “buone figlie”. In quell’espressione non c’era la venatura di compatimento e tolleranza che noi ora vi diamo; era proprio affetto genuino e come tale era interpretato.  Alla Signora Madre piaceva tantissimo venire a Villa, l’Ospedaletto era il suo cuore, appena aveva un po’ di tempo veniva a Villa. Nonostante la scomodità della strada perché non c’erano mezzi, Lei in qualche maniera arrivava ugualmente e per noi era grande festa. Ci portavamo vicino al cancello e appena si avvicinava le volavamo tutte a torno con il nostro saluto. Viva Gesù, Signora Madre. Ad una ad una ci baciava tutte e ci diceva: come state figliole mie? E poi correva a baciare le inferme. Aveva una gentilezza straordinaria ed era tanto misericordiosa…”.  L’affetto che la Madre aveva per le figlie non era altro che il riflesso del suo amore per Dio. Un sentimento semplicemente umano non riesce a volare alto e a superare gli ostacoli dovuti alle differenze. Ne rimane condizionato e invischiato; finisce sempre in simpatie e antipatie che creano divisioni, rancori, gelosie. Le “buone figlie” si sentivano tutte amate e capivano che quell’amore veniva da lontano. Aveva una sorgente misteriosa eppure, in qualche modo, percettibile. Si alimentava delle lunghe ore di adorazione davanti al SS. mo Sacramento. L’intensa vita interiore di Madre Teresa non poteva rimanere occulta. Si rifletteva in ogni parola e gesto ed esse ne erano contagiate.  “ Quando la Superiora mi chiamava per presentarmi alla Madre per qualche mancanza che avevo fatto, lei mi faceva un segno sulla fronte e mi diceva: “Non farlo più, sii buona ed ubbidiente” e mi prendeva per mano e si andava in chiesa a dire un’Ave Maria”. Le loro preghiere giornaliere erano il prolungamento, in comunione di intenzioni e di sentimenti, delle preghiere della Madre. L’Opera di Madre Michel viveva e vive così.

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