La parola “amore” ha sempre bisogno d’un dizionario

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 “Beati i misericordiosi,

perché troveranno misericordia”

Proseguendo lo studio tanto scrupoloso quanto affettuosamente devoto dei tratti della spiritualità dell’Istituto fondato dalla Madre Teresa Michel, ed ispirandomi alla sua memoria ed ai suoi scritti, eccomi a confrontarmi con uno degli aspetti salienti non solo del predetto ambito, ma di tutta la visione evangelica che trova riscontro e fonte privilegiata nel matteano “discorso del monte”. La misericordia, infatti, è indicata come virtù e ricchezza dei seguaci del Padre al pari della povertà, dell’umiltà, della giustizia, ed è perciò continuamente citata dai quattro evangelisti come manifestazione dell’amore di Dio e del rapporto tra questo suo amore e gli uomini. Nei vari passi del Vangelo che significativamente balzano alla memoria (“Il buon Samaritano”, “La donna adultera”, “Il servitore spietato” …) è molto importante notare e sottolineare che la misericordia si esprime nel perdono (da parte di Dio) dei peccati e nel suo invito all’uomo a fare altrettanto nei confronti del prossimo. Gli uomini, infatti, non soltanto debbono “imitare” Gesù, ma debbono sentirsi partecipi della sua carità, attori comprimari in un certo senso di questa grazia-valore che Paolo chiama “fondamento della realtà futura”.

Un pensiero di Madre Michel risalente al 5 luglio 1917 dice: «Bisogna abituarsi a vedere la volontà di Dio in tutti gli avvenimenti che ci succedono e dire il fiat amoroso e rassegnato di un buon figlio al proprio padre […] E non è tale Dio per noi? […] Amiamolo dunque e in Lui poniamo tutte le nostre speranze». Anche quella di essere “madri e sorelle amorose dei piccoli e dei poveri, essendo questa la caratteristica indispensabile ed essenziale d’una Figlia della Divina Provvidenza chiamata ad incarnare l’angelo della pietà nel campo del dolore” (Bozza del 1° Regolamento scritto da M. Michel).

Commentando l’epilogo della pagina contenente l’episodio dell’adultera (Gv. 8, 1-11), s. Agostino pone in risalto che di tutti i personaggi che affollano la piazza antistante il tempio, tra i quali gli scribi e i farisei che avevano condotto la donna a Gesù, dopo un po’ non c’era più nessuno. Sant’Agostino commenta che rimasero “Solo in due”: la miseria (umana) e la misericordia (divina). Ma ascoltiamo ancora Agostino: «… Tutte le opere buone che compiamo nella vita sono opere di misericordia. Ad esempio, tu porgi del pane ad un affamato: la tua misericordia venga dal cuore, non dal disprezzo […]. Se noi amiamo Dio e il prossimo, non possiamo compiere tutte queste opere senza pena nel cuore […] Chi semina scarsamente, scarsamente mieterà» (Sermone sulla misericordia). In alcune pagine dei Vangeli i termini misericordia e compassione sono sinonimi e vengono usati indifferentemente: ciò che conta è che quando vengono espresse e praticate lo si faccia con atteggiamento amorevole, di totale disponibilità. Ciò ci renderà non solo omologhi, ma anche degni della pietà di Gesù, della sua misericordiosa dolcezza.

Perché, vedete, il caritatevole, colui che sa essere misericordioso possiede una sovrabbondanza di bontà interiore: è incline a perdonare e non a castigare, cioè a prendersi vendetta su colui che gli ha pur fatto del male. Vendetta e perdono sono infinitamente distanti l’uno dall’altro, ma sono anche indissolubilmente legati. Certo, in ambito sociale, nell’amministrazione di una comunità, d’uno Stato, non si può prescindere dall’esigenza della giusta riparazione perché i comportamenti illegali, il disordine lato sensu non possono restare impuniti.

Madre Michel (in una lettera al reverendo Tricerri del 30 maggio 1924), toccava questo delicato argomento. Dopo avere – tra l’altro – ringraziato il sacerdote del suo paterno interessamento verso “questa piccola Opera nostra così bersagliata dal nemico d’ogni bene”, si soffermava con l’animo tanto amareggiato sul comportamento ostile di certe persone che, invece, non vedevano di buon occhio l’Istituto. Scriveva: «Si vede proprio il proposito di volersi vendicare. Io spero e confido che il Signore saprà difendere le Suore e coprire con la sua misericordia le miserie che possono esservi…». Misericordia, carità, amore. Questo amore, iniziativa di Dio, si è manifestato, care sorelle, nel dono di Cristo per noi peccatori ed ha avuto il suo compimento sulla croce. Nella sua prima Lettera, Giovanni ci ricorda: «In questo è l’amore: non che noi abbiamo amato Iddio, ma che egli ha amato noi…» (1Gv. 4, 10). Insomma, chiamiamola pure con sinonimi, ma la parola “amore” ha sempre bisogno d’un dizionario e per noi cristiani il dizionario, “lo specchio” dove specchiarci è Gesù Cristo.

Triste quella comunità (piccola, grande, civile, religiosa: non ha importanza) dove non regni lo spirito di misericordia nella vita in comune. Questo atteggiamento si chiama “pace” e costituisce non solo un requisito (o addirittura “prerequisito”), ma anche un’aspirazione costante dei componenti il nucleo, siano essi sposi o membri d’una qualsiasi comunità. Ed è così perché questa pace è frutto di atteggiamento interiore di umiltà. Vedete: parlando di una beatitudine con naturalezza si sciorinano anche le altre: è proprio l’umiltà, del resto, che ci fa accettare l’atteggiamento di perdono, sempre nella consapevolezza – tuttavia – che quanto si perdona va rimesso da Dio. Questo punto fermo della nostra natura di cristiano non può non evocare la famosa Lettera a Diogneto. Ricordate?: «I cristiani non si distinguono dagli altri né per il territorio… eccetera, ma perché sono “i veritanti nell’amore”, cioè fanno la verità nella fraternità». Nello spirito di misericordia non abita il timore, perché il timore suppone un castigo ed anche perché chi teme non nutre fiducia e, perciò, non è perfetto nel suo amore misericordioso.

Ha scritto la vostra Madre: «Anche qui si soffre per la guerra; noi però, come i bambini disgraziati che sono i preferiti dei buoni genitori, non sentiamo ancora tanto […] e abbiamo la Casa piena di poverelli e specie di ammalati. Per riguardo ad essi il Signore avrà misericordia anche di noi» (Alessandria, 2 luglio 1917). Una società senza amore è impensabile, figuriamoci poi una Chiesa senza amore (senza poveri, e senza povertà, come sta ripetendo papa Francesco!). All’inizio ho citato il brano evangelico del buon Samaritano. Padre Turoldo, che ci ha lasciato una “Traduzione poetica dei Salmi”, lo commenta così: «Il racconto è uno dei più piccoli di tutta la letteratura del mondo, appena undici righe, forse quindici; quindici righe in cui è raccolta la possibile soluzione della storia, il dramma dell’uomo singolo come quello della società»[1]1. Uno dei brani più piccoli, questo di Luca, ma quanta pienezza in esso (Lc 10,30)! «Un uomo scendeva…». Così inizia e poi termina quando Gesù domanda: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che era incappato nei briganti?» (id. 36). Con questa domanda Gesù rovescia le parti: non “lui” prossimo a me, ma “io” prossimo a colui che è in disgrazia, a quanti sono nell’abbandono. «Sono io, prosegue il frate servita, tu, la Chiesa, chiunque. È Dio che scende dai cieli e si fa prossimo all’uomo con la sua misericordia […]. I competenti dicono che “misericordia” indichi propriamente “amore che trabocca” […] vera immagine dell’amore di Dio che si riversa sugli uomini. Pienezza del dono di sé, amore che straripa»[2].

Fin qui Turoldo, del quale Carlo Bo scrisse: «Padre David ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Donandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni».

Care Sorelle, nella Lettera pastorale che ho scritto per la “mia” arcidiocesi per il biennio 2013/2014, tutta incentrata sull’amore agapico, ho dedicato più pragrafi all’«amore sfrenato» di Dio per noi uomini, che abbiamo il dolce peso di ricambiare verso lui e verso il prossimo, proprio in nome del significato profondo ed etimologico della parola “misericordia”, l’amore “straripante” di Dio”.

Amore “che trabocca”, “straripa”, ovvero “sfrenato” significano soltanto una cosa: che quella che è stata definita la magna charta della nostra fede (cioè il “programma delle beatitudini” illustrato al mondo e all’eternità nel “discorso del monte”) evoca l’Empireo, dove tutti i “cieli” ruotano attorno a Dio, eterna legge d’amore, quell’amore descritto da Dante nell’ultimo verso del suo capolavoro, capace di muovere, appunto, “il sole e l’altre stelle”. Tutto nasce dall’amore, vive nell’amore, va verso l’amore, nel gaudio come nella sofferenza, nel tripudio come nell’umile accettazione dei torti. Proprio come capitò alla vostra Madre, sempre serenamente china ad accettare quella che si manifestava come qualcosa “oltre” le sue umane forze e capacità previsionali. Prendo alcuni concetti, in merito, da una sua lettera inviata da Alessandria il 16 gennaio 1916 ed indirizzata a Suor Maria: «Carissima Suor Maria e figlia in N.S.G.C.

Che desolazione! Col bisogno che abbiamo di essere buone, di aver la pace fra noi perché siamo poche, e il lavoro è molto e la vigna del Signore è quasi deserta, noi ci perdiamo in queste miserie e offendiamo il Signore. T’assicuro che sono proprio desolata e ti scongiuro di fare quanto puoi per ristabilire la pace.

Ma che cosa ci ha insegnato il Signore? È in questi momenti che dobbiamo mostrarci vere sue seguaci e figlie; ma se facciamo così come ci potrà benedire? Meglio allora essere secolari se seguiamo le massime dei secolari di farci giustizia da noi. La virtù sempre trionfa e i Superiori sono qui per dar ragione a chi ce l’ha. Ma a questa distanza, coi dolori che abbiamo, bisogna aver pazienza, e dar tempo al tempo.

Oh povera cara vigna di Queluz, in che stato è ridotta! Sempre disunioni, sempre bisticci, e Gesù è offeso, e il nemico trionfa. Quanta amarezza, quanto dolore in fondo a questa povera anima mia! Eppure sento Gesù che è buono, infinitamente buono, che compatisce gli sbagli fatti non per malizia ma per inesperienza e ignoranza, e ho fede che aggiusterà tutte le cose dopo tutte queste tribolazioni che ci manda appunto per purificarci e per renderci più atte ad ottenere maggiori grazie». È la gratitudine del cuore verso il Signore datore di ogni dono perfetto che deve farci “piegare” con amorevole pietà e misericordia verso il fratello, soprattutto il povero, nel quale si “nasconde” Gesù.

 X Vincenzo Bertolone

Arcivescovo Metropolita di Catanzaro – Squillace

 

[1]  D.M. TUROLDO, Amare, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1986, 107.

 

[2] Ibidem, 124-126.

 

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