Così Madre Teresa convertì Borsalino

Articolo di  Alberto Comuzzi pubblicato sulla rivista Jesus, mensile di cultura e attualità cristiana, agosto 1983

Questa storia ha il sapore delle fiabe dove il bene,   alla      fine, trionfa. Ma, avvertiamo subito: ne ha solo il sapo­re perché i fatti che narra so­no realmente accaduti. Protagonisti: Teresa Michel, una donna di grande vi­ta interiore e Teresio Borsalino, un uomo di eccezionali capacità imprenditoriali. La vicenda ha come scenario l’Alessandria dell’inizio del secolo, una cittadina agricola che sta subendo le prime sconvolgenti trasformazioni imposte dalla nascente industria da Giovanni Giolitti che, favorevole a un processo di industrializzazione accelerato, finisce quasi sempre per pri­vilegiare il capitale nei conflitti spesso aspri nel mondo del lavoro.

Sono anche gli anni in cui la Belle Epoque muta, aggior­nandoli, i gusti: le prime au­tomobili imprimono alla vita ritmi più incalzanti, le strade illuminate trasformano le abi­tudini, la parcellizzazione e la specializzazione del lavoro aprono spiragli di benessere a un crescente numero di persone.

È in questa situazione che la cittadina piemontese, gra­zie alle indiscusse doti im­prenditoriali di Teresio Bor­salino, assurge a capitale del cappello in Italia e nel mondo intero. Questo mitico capita­no  d’industria, corteggiato dalle donne più in vista (Ales­sandra Drudi, la celebre can­tante che lanciò “Tripoli, bel suol d’amore”, nota con il nome d’arte di Gea della Garisenda, diventerà la sua compagna), vezzeggiato dai politici (consigliere comunale nel 1902, sarà poco dopo senatore del Regno), ammirato dagli industriali (che per anni gli affideranno la presidenza della loro Unione), ha un grande disegno: potenziare l’azienda del padre fino a farne un colosso economico. Nel 1899, a soli 33 anni, dopo avere fatto un duro tirocinio in fabbriche della Svizzera, del Belgio, della Germania e dell’Inghilterra, Teresio è al vertice dell’impresa di cui prende, deciso, il comando. In pochi anni la Borsalino si impone. I dipendenti da 1.250, nel 1901, passano a 2.000 nel 1914 e i cappelli prodotti, nello stesso periodo, da 750.000 a 2.000.000 all’anno. All’estero i concorrenti, soprattutto quelli francesi, cedono ad uno ad uno. I mercati più redditizi in Europa sono quello tedesco, austriaco, rumeno e spagnolo, mentre nel resto del mondo si segnalano quelli dell’America Latina e dell’Australia. La massa di denaro che affluisce nelle casse dell’azienda sale di anno in anno e con essa il prestigio del suo proprietario. Uomo di successo – e di mondo – il senatore Borsalino, attento all’immagine della ditta quanto alla sua, trova il tempo di farsi fotografare con in mano un elegante cilindro, simbolo della sua raffinata produzione e incontra subito un solerte cronista dell’epoca pronto a ravvisare in lui «una straordinaria somiglianza di portamento» con un altro grande dell’industria di quei tempi: l’americano Henry Ford.

Neppure la Prima guerra mondiale riesce a sconvolgere piani di questo magnate che, rimasto praticamente senza rivali, deve ora vincere un’altra scommessa con se stesso, la più difficile: mantenere intatto l’impero costruito.

Gli operai se non si lamentano per il salario, che è sicuro, vivono però in condizioni di lavoro precarie. La promiscuità, le inesistenti precauzioni igieniche, i turni stressanti (12-14 ore al giorno), la nocività degli acidi usati per la produzione dei cappelli, sono situazioni reali di cui Borsalino è al corrente e che potrebbero far esplodere la protesta degli operai in modo incontrollabile. Ma le leggi della produzione sono ferree e non tollerano aumenti dei costi pena la perdita di competitività. Ad attirare la sua attenzione (tutta protesa agli affari e al profitto) verso i problemi dei lavoratori ci provano i nascenti sindacati appoggiati da un socialismo sempre più aggressivo, ma con scarsi risultati.

È  invece una donna mite – l’altra protagonista di questa storia, come abbiamo detto sopra – che, con il suo esempio, fa capire al magnate piemontese che esistono altri valori, altre leggi, oltre a quelle di mercato. L’incontro quasi accidentale con questa donna, Teresa Michel, cambia in modo radicale la vita di Teresio Borsalino.

I due, che appartenevano a mondi completamente diversi, si conobbero solo per quelle strane coincidenze della vita che i credenti chiamano «segni della Divina Provvidenza» e i laicisti «giochi del destino». Personaggio veramente singolare questa Teresa Grillo coniugata Michel, nata il 25 settembre 1855 in Spinetta Marengo, poco oltre la periferia di Alessandria dove 12 anni dopo sarebbe venuto al mondo il leggendario Teresio. Ultima di 5 figli del nobile Giuseppe Grillo, primario dell’ospedale civile della cittadina piemontese, e di Antonietta Parvopassu, viene mandata dodicenne a Lodi nel Collegio delle Grazie, un prestigioso istituto frequentato dalle giovani della migliore borghesia lombarda. Le suore della Beata Vergine Maria (chiamate comunemente Da­me Inglesi) che lo dirigono, oltre ad istruirla, si preoccupano di formarla cristiana­mente. Elemento questo che segnerà tutta la sua vita. A soli 22 anni sposa Giovanni Battista Michel, un ufficiale dei bersaglieri quasi quaran­tenne molto religioso e d’ani­mo sensibile, tanto da farlo distinguere più per la penna che per la sciabola. Dal matri­monio non vengono figli. Teresa soffre per la mancata maternità e scivola gradata­mente in uno stato di malinconia che si fa acuto, fino a prostrarla psicologicamente quando, trentaseienne, rimane vedova. Completamente assente, indifferente a qualsiasi stimolo, è sull’orlo del tracollo. Eppure è colta, ric­ca, ancora giovane e attraen­te, avrebbe tantissime occasioni per dare senso a una nuova vita. All’improvviso il suo comportamento muta: «Prenderò le medicine», dice al medico che, ormai sfidu­ciato, è per l’ennesima volta al capezzale del suo letto e cerca di convincerla a curarsi. Ancora oggi i biografi non hanno trovato una spiegazio­ne certa di questo suo com­portamento, ma la più atten­dibile sembra l’istantanea consapevolezza della donna che solo attraverso la scelta religiosa si sarebbe realizzata.

Due anni più tardi, nel 1893, dopo una visita alla Pic­cola Casa del Cottolengo di Torino, affitta un gruppo di baracche, in via Faà di Bruno ad Alessandria dove comincia ad accogliere orfani e indigenti di tutte le età. In breve il suo pur cospicuo patrimonio è prosciugato dagli assistiti che, sempre più numerosi, bussano alla porta. Occorrono aiuti materiali, ma anche persone disposte a lavorare con lei. «Teresa Michel? Una nobile che gioca a fare la populista», dicono i più. Ma qualcuno la prende sul serio e decide di seguirla. Sei anni dopo, 1’8 gennaio 1899, con sette colla­boratrici, veste l’abito religio­so: nascono le Piccole Suore della Divina Provvidenza.

La notizia ora indigna me­no i benpensanti, costretti a prendere atto che quelle ra­gazze non scherzano. La co­scienza collettiva è scossa: scandalizzano sì, quelle suore che umili, elemosinano per le strade un po’ di carità per i miserabili, ma vanno pur aiu­tate, in qualche modo. E qui si inserisce il punto centrale della nostra storia. Ad Ales­sandria non cade foglia che Borsalino non voglia. Il sena­tore ha il potere e le amicizie per realizzare ciò che vuole. Per quanto sia occupato e di­stratto da mille impegni, non può ignorare ciò che sta fa­cendo una certa madre Tere­sa. Di tanto in tanto giungo­no al suo orecchio le imprese della religiosa. Suo padre, Giuseppe, anni addietro, le aveva donato un asinello per trasportare le offerte in natura raccolte nelle questue. E poi un uomo concreto come lui non può rimanere indifferen­te alle personalità forti e coraggiose che in qualche modo si distinguono. Affascinato dalle doti della suora, decide di farle visita. Quando esce dalla casa di via Faà di Bruno è impressionato dallo squallore dei locali in cui vivono le religiose e i loro ospiti. Senza esitare decide che il bene – quello con la “B” maiuscola – che le suore fanno, si esprima almeno in una sede accogliente. E da grande come è, realizza la Casa della Divina Provvidenza, un complesso i su una superficie di 17.000 metri quadrati che ancora og­gi, a oltre mezzo secolo di distanza, è uno dei più fun­zionali per l’attività assistenziale e medico-psichiatrica che vi si svolge. Siamo all’ini­zio degli Anni Venti: da que­sto momento in poi un sottile filo spirituale legherà (prima con discrezione, poi in modo sempre più evidente fino alla a sua conversione) Teresio Borsalino a madre Michel. Significative a questo propo­sito le parole delicate con cui annuncia alla fondatrice delle – Suore della Divina Provvi­denza che può entrare nella nuova Casa: «Ella, in nome del Signore, prenda possesso del piccolo regno della carità che io sono felice di avere edificato per ispirazione di lei Reverenda Madre e del Buon Dio». Agli otto milioni di lire spese per il monumentale ospizio, Borsalino ne aggiun­ge, poco dopo, altri due e mezzo con cui fa ristrutturare il vecchio stabile di via Faà di Bruno che diventa così la se­de dell’amministrazione e del Noviziato.

Ma un tarlo segreto conti­nua a rodere l’animo del re del cappello che sente di do­vere molto ai suoi operai, a quelli, soprattutto, che hanno concorso a renderlo grande e che, tubercolotici, giacciono in un letto spesso privi di cure.

In cinque anni, tra il 1930 e il 1935, il magnate spende al­tri 12 milioni e fa sorgere su un’arca di 96.000 metri qua­drati, alla periferia della città, uno dei sanatori più moderni dell’epoca con 220 posti letto. Alle parole di Giacomo: «La fede senza le opere è vana», Borsalino sente di avere dato significato, ma non è soddi­sfatto. Nell’intimo avverte di potere, anzi, di dover fare qualcosa di più. Madre Mi­chel, sempre discreta, è lì a ricordarglielo. La sua conver­sione, la sua adesione a Cristo deve essere totale, quindi, di­ventare pubblica: in chiesa re­golarizza così la sua unione con Gea della Garisenda (en­trambi, prima della morte, chiederanno il conforto cri­stiano). Ai nostri occhi disin­cantati (anche per tutto ciò che è accaduto in questo ulti­mo mezzo secolo) l’esperien­za di Borsalino e di madre Michel potrebbe apparire, anacronistica e saremmo tentati di liquidarla sbrigativa­mente come paternalistica. Ma sbaglieremmo e in modo grossolano. Se oggi, infatti, trecento persone (138 delle quali handicappate gravi) vi­vono nel decoro, opportuna­mente assistite, lo si deve proprio a quella esperienza segnata dalla fede di due ani­me generose. Del resto l’Isti­tuto Divina Provvidenza è lì a dimostrarlo. E con esso le 19 figlie spirituali di madre Mi­chel (in tutto sono 410 sparse in 65 case d’Italia, Brasile, Cameroun e Argentina) e le 25 infermiere laiche che vi la­vorano. Trascorrere un po­meriggio con loro, accanto a certi minorati psichici, è un’esperienza che consiglia­mo a tutti. Può servire a chia­rire molte di quelle idee che confondono la nostra mente di cristiani spesso superficiali.

Alessandra Drudi in arte Gea della Garisenda con Madre Teresa e l’ing. Gardella il giorno dell’inaugurazione dell’Istituto Divina Provvidenza in Alessandria.

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