L’attesa si compie nell’accoglienza di un dono: Gesù.
“Aspettare” o “attendere”. Questi due verbi non sono seplici sinonimi. Infatti “aspettare” indica piuttosto l’azione di uno che sta fermo e guarda verso un evento, come l’arrivo del treno o del tram.
“Attendere” (tendere verso) indica invece l’azione di uno che va incontro a qualcuno, che è già in mezzo a noi.
L’attesa è proprio una caratteristica tipica dell’AVVENTO.
Che significa attendere?
Le attese dell’uomo sono tante, ma non tutte sono vere attese.
Attende la mamma il suo bambino nella lunga gestazione, attende il ragazzo la sua ragazza all’uscita dalla scuola, attende il malato i risultati delle analisi, attende il giovane l’esito dell’ennesimo colloquio di lavoro, attendono i genitori che cigoli la porta di casa alle cinque del mattino per tirare un sospiro di sollievo: è tornato vivo! Attende il bambino il sorriso del papà al suo ritorno da scuola, attendono gli immigrati il permesso di soggiorno in fila fin dalle prime luci del mattino, attende l’anziano nella casa di riposo la visita di qualcuno che gli ricordi di essere vivo; attendono gli affamati un pane, gli esiliati la patria, tanti bambini la pace e non la sanno nemmeno immaginare tanto sono abituati a vivere sotto i colpi dei mortai. Attendono i nostri malati nelle nostre abitazioni, in cima a scale impossibili che non riusciranno più a fare, la nostra visita, i nostri conforti religiosi, i nostri ministri straordinari della comunione, seduti alla finestra. Attendono ad Aleppo migliaia di persone la libertà, ma non sanno se verrà solo perché saranno sterminati.
Non è attesa invece quella del terrorista che ha già la mano sulla cintura esplosiva o sul telecomando del detonatore, non è attesa quella del pedofilo che sta tirando le maglie dei suoi ricatti, non è attesa la lunga coda di automobili che la nostra gente deve subire ogni giorno da pendolare per andare e tornare dal lavoro; non è attesa l’aria greve che prende la piazza per l’arrivo dello spacciatore o l’appostamento lungo la strada per comperare il corpo di qualcuna o di qualcuno; non è attesa la solitudine di chi dopo tante tergiversazioni prende la finestra di corsa; e nemmeno quella dell’usuraio che ogni giorno torna a misurare il sangue succhiato ai poveri…
È attesa la tensione verso la vita, quella degli altri, la mia, quella del mondo; non è attesa tutta quella percezione o orientamento alla morte che spesso abita le nostre esistenze. Nel nostro mondo di oggi tutti aspettiamo la fine della crisi, ma ne siamo fatalmente intrappolati senza spiragli.
(Cfr + Domenico Sigalini
Luca 1, 26-38
Il Vangelo di Luca dice che «nel sesto mese Dio manda l’angelo Gabriele» per annunciare qualche cosa a Maria. Significa che l’iniziativa è di Dio e che questa iniziativa si rivolge a una persona, prima e al di là dei suoi meriti e dei suoi diritti, perché il Vangelo di Luca insiste su questo. «Viene mandato in una città della Galilea» (in una zona non sottosviluppata dal punto di vista economico, ma dal punto di vista religioso) «a una vergine, promessa sposa di un uomo» (a una ragazza che non ha, dal punto di vista sociale, nessuna rilevanza). Il che è tanto più significativo se si confronta questo annuncio con quello dato a Zaccaria, che avviene a un sacerdote all’interno del tempio di Gerusalemme. Quindi quest’annuncio è un annuncio nel nascondimento o, se volete, nella povertà, in una condizione di debolezza, dal punto di vista umano. Ma questo è fondamentale perché ci aiuta a capire che le sue grandi opere Dio le fa non con degli strumenti straordinari, ma deboli: sceglie “l’umiltà della sua serva”, cioè la debolezza, la povertà, la piccolezza, l’insignificanza sociale di Maria, proprio per compiere le sue meraviglie.