Ricostruire le relazioni
Il dinamismo del Dialogo
Il dinamismo del dialogo è l’amore e si sviluppa in un rapporto e progresso dialettico di:
- pienezza e indigenza
- identità e differenza
- “consensus” e lotta
- Pienezza e indigenza
La reciprocità delle coscienze rivela loro in forma unitaria una certa pienezza e indigenza propria. L’una l’altra le coscienze si richiamano perché sono indigenti, perché noi abbiamo bisogno della visione che l’altro ha di se stesso e della realtà; visione che, vissuta da me solo, sarebbe vissuta poveramente e non con la pienezza con cui si vive ricevendola dall’altro. Dio, il mondo, gli altri, sono “vissuti” da milioni di uomini; perciò quando io non li vivo da solo, ma attraverso la loro esperienza, la mia esperienza si universalizza; in un certo senso l’esperienza della umanità si condensa in me e la mia indigenza viene superata.
D’altra parte, il fatto di avere una certa pienezza spinge ad offrirsi all’altro. Così il dialogo non sussiste senza interiorità (solitudine, raccoglimento), dal momento che evidentemente non potrò donarmi se non mi possiedo, se non mi salvo dalla dispersione che annulla il mio contenuto, o almeno lo rende confuso e contraddittorio.
Questa “pienezza-indigente” che ci pone in situazione di complementarietà e si manifesta nella dialettica del dare e ricevere, del dirmi e ricevere l’altro, dell’Io e del Tu, non è sempre gaudiosa. Consegnare la propria intimità costa. Si tende a riservarsela, a non arricchire l’altro, a non «perdere» dando. Come se avessimo stabilito un diritto di proprietà su noi stessi.
- Identità – differenze
Ora se il dialogo si fonda sulla complementarietà delle coscienze (io ho qualcosa che l’altro non ha e viceversa), tutto il dialogo si costituisce su differenze. Se io non sono me stesso, se l’altro non è se stesso, allora non siamo nulla, non possiamo dialogare.
Le differenze sono d’indole molto diversa (razze-culture-mentalità-fede…).Per esempio, nonostante la profonda identità nella stessa fede di due cristiani, sussiste in ciascuno di essi l’irrepetibile originalità del loro modo di viverla; c’è per loro due la possibilità di dialogare; possiedono due espressioni diverse, della stessa realtà. Possono arricchirsi mutuamente, grazie alla loro diversità.
Per questo ci sono tante espressioni diverse della fede. Cercare di uniformarle tutte (tutti preti-operai o tutti teologi o tutti liturgisti) equivale ad uccidere il dialogo. La varietà dei doni che Paolo difendeva nel Corpo Mistico, è essenziale per un dialogo in cui ciascuno apporti la propria originalità.
Però il dialogo domanda al tempo stesso identità. Se ci sono solo differenze, non ha luogo l’incontro
Per questo il gran compito del dialogo di fronte a coloro che hanno grandi differenze da me, è ricercare la base di identità, cercare dove posso identificarmi con l’altro. E’ il momento del «consensus» (sentire con) frutto di apertura all’altro, ascoltandolo, dandogli posto in me, rivelandogli la mia immagine, simpatizzando con la sua persona, utilizzando insieme la mediazione liberatrice di ciascuno.
- “Consensus” e lotta
L’amicizia suppone forme profonde di tensione tra il « consensus » e la lotta. Passato il primo momento sommamente gaudioso d’identità, di “consensus”, viene la scoperta delle differenze. Allora: o io accetto totalmente la differenza e sono assorbito (mi suicido); o non accetto l’altro in nessun modo e cerco di assorbirlo, di annullarlo (di ucciderlo). Ecco instaurato un rapporto di lotta nell’amicizia.
Ogni dialogo, in quanto dialettica, è lotta con l’altro. Ogni amore è lotta con l’altro. Io debbo lottare per incontrare l’identità dell’altro, debbo metterlo a nudo, in qualche maniera devo vincerlo. E se io cerco d’imporre la mia differenza, egli deve lottare per rimanere se stesso; se cerca di impormi la sua, devo lottare per mantenermi libero. Con lotta autentica. Il dialogo tende ad una invasione totale dell’« io » e del « tu ».
Si tratterà però di conservare ciascuno la propria libertà, condizione «sine qua non» per conservare la persona e la capacità del dono. In quanto io dico la mia differenza e in quanto l’altro manifesta la sua, il conflitto è inevitabile al dialogo. Si assimila o si rifiuta qualcosa; ma questa assimilazione suppone sempre una crisi, salvabile soltanto dialetticamente, cioè nella convinzione che io devo conservare l’altro come è e non lasciarmi assorbire completamente da lui.
Orbene, così come nell’amicizia la crisi e il conflitto non possono spaventare, non debbono uccidere quella amicizia, ma piuttosto purificarla, così anche il dialogo progredirà solo attraverso il superamento dei conflitti tra i dialoganti. Il fatto grave sarebbe che il conflitto uccidesse il dialogo, perché può ucciderlo.
Due sono gli atteggiamenti di fronte al conflitto: chiudere il dialogo o salvare la crisi nella fede. Possiamo lasciarci andare al «non si può» o dire, nella fede, che ancora rimane aperta la possibilità.