La beatitudine che riguarda la giustizia può apparire la più “terrena” fra quelle indicate dal vangelo di Matteo. Perché fa subito pensare alla necessità, per ogni uomo e ogni donna, di lottare contro le tante iniquità esistenti in questo mondo, con cui sono chiamati a confrontarsi tutti, in particolare i più poveri. Per i cristiani però la giustizia non appartiene solo a questa o quella condizione sociale, umana, legata ad un ambiente, ad un particolare Paese o ad interi continenti. Rimanda infatti sempre, in qualche modo, al Regno di Dio. Consapevoli, come si legge nella lettera a Diogneto, che la loro vera patria è “nei cieli”, i cristiani non fuggono di fronte alle responsabilità terrene, ma al tempo stesso non si fermano ad una lettura materiale della realtà e dei bisogni individuali e collettivi.
Se si leggono gli scritti di madre Teresa Michel e si guarda alla sua vita si può facilmente notare quanto la ricerca della giustizia sia prima di tutto un evento spirituale. Nelle continue raccomandazioni alle sue consorelle la fondatrice delle Piccole suore della Divina Provvidenza accosta, in modo significativo, la “fame” e la “sete” ad un percorso interiore verso la perfezione e la santità: è a questo che i cristiani devono aspirare per vivere la “giustizia”. E anche gli strumenti per realizzarla sono eloquenti. Scrivendo alla “carissima” suor Teresa, il 17 gennaio 1924, li identifica con “l’umiltà” e la “bontà” precisando che con queste due armi spirituali “si ottiene molto di più che con la durezza dell’amor proprio”. Là dove fa ampiamente capire che tante volte la risolutezza nell’affrontare i problemi può trarre in inganno e che in tante situazioni, all’interno di una comunità, occorre farsi accompagnare da un’altra, importante beatitudine come la mitezza di cuore.
Ciò non vuol dire che in altri casi si debba invece agire, anche con forza, per indicare la strada da percorrere. Così madre Teresa interviene senza sosta nella vita che si svolgeva all’interno delle case gestite dalle sue “Piccole suore” e nella missione che portavano avanti in Italia e all’estero. Soprattutto quando si presentavano difficoltà. Scrive a Suor Maria Immacolata Gillet, il 29 agosto del 1912, chiedendo il suo conforto per migliorare la condizione precaria in cui le sorelle più giovani svolgevano il loro apostolato: “La vita che devono fare in queste piccole case, scarse sempre di numero, senza avere solidi fondamenti, le ha abituate ad una vita dissipata con poco spirito di raccoglimento e di preghiera, e di poca unione e carità fraterna”. Si chiede, quasi in uno sfogo, “come rimediare”. E trova subito una risposta evangelica: “Dobbiamo operare subito, ma soprattutto amare”. L’amore, per Teresa Michel, è all’origine della giustizia, più di ogni giudizio sui torti e le ragioni, e apre la porta della santità. Un amore che, come spiega nella stessa lettera, ha bisogno di “fortezza”, sentimento “che solo Dio può dare”.
Colpisce quanto la fondatrice delle “Piccole suore” sia sempre alla ricerca del dialogo e del confronto con le sue sorelle e con altre figure per lei importanti (come testimonia ad esempio l’amicizia con don Luigi Orione), riguardo le scelte da prendere. Confessa, nel maggio 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, di avere bisogno della vicinanza di suor Maria per non trovarsi da sola di fronte a tante “infermità morali e fisiche” che rischiano di far perdere “quella scintilla” spirituale ricevuta “coll’aiuto di Dio in questo mio povero cuore”. Ma è molto interessante notare che la sorgente di ogni soluzione risiede nelle Scritture. Tanto che cita gli Atti degli Apostoli, al secondo capitolo, là dove si descrive l’unanimità vissuta dalla prima comunità cristiana, come altro modo per aspirare alla giustizia: “Una sola cosa domando al Signore, che ci dia il buono spirito, che ci faccia un cuor solo ed un’anima sola come i primi cristiani, che tutte quelle che ha chiamato a servirlo in quest’opera possano resistere a tutte le prove ed essere perseveranti fino alla fine”.
L’”umiltà” e la “dolcezza” sono altre due strade indicate da Madre Teresa per chi ha fame e sete di giustizia, insieme al “coraggio” e alla “pazienza”. Sempre a suor Maria, nell’aprile del 2012, raccomanda di esercitare il ruolo che più le conviene all’interno della sua comunità religiosa. E cioè quello materno più che quello, freddo, di giudice chiamato a dirimere le controversie che inevitabilmente possono insorgere all’interno di una casa. O di semplice “capo”, secondo un ordine più gerarchico che misericordioso: “Sii dunque Madre più che Superiora; che questa parola non si faccia mai sentire fra noi. Siamo sorelle, vogliamoci bene essendo tutte figlie della medesima Madre e suddite della nostra unica Superiora: Maria Santissima”. E – si chiede più avanti nella stessa lettera – “La Madonna Immacolata dovrà abbandonare le sue povere figlie? Cattive si, ma pur sempre sue figlie…”. Così, conclude Teresa Michel, “coraggio e pazienza, e il Signore ci aiuterà”. È significativo che al riguardo si faccia riferimento al passaggio del Vangelo di Matteo che parla della costruzione della casa sulla roccia (Mt 7, 21-27): “Senza questo (l’aiuto di Dio), fabbricheremo sull’arena, e il più lieve soffio della contraddizione ci abbatterà”.
È fondamentale per madre Teresa “mantenere la pace” e si adopera in ogni situazione perché prevalga la concordia a vantaggio soprattutto dei più deboli, che non devono essere protetti dall’ingiustizia di questo mondo. La passione che ha per le case in cui vivevano le sue Piccole Suore ha accenti che riprendono i salmi e il profeta Isaia quando, ad esempio, recita quasi una lamentazione nei confronti della comunità di Queluz, in Brasile, dove la congregazione era presente dall’inizio del Novecento: “Oh, povera, cara vigna di Queluz, in che stato è ridotta!”. Una piccola casa che, agli occhi della Madre, non può che essere comunque “una vigna” del Signore da curare con affetto.
Colpisce anche, sempre di fronte alle difficoltà della missione in Brasile, la ricerca continua, da parte di madre Teresa, del conforto fraterno delle sue compagne con le quali non ha mai un rapporto “da Superiora”, come si è già sottolineato, ma da “madre” e, spesso, da sorella, per farsi aiutare a riprendere le forze, come si legge in una lettera inviata da San Paolo nel giugno del 1921, rivolta ad una sua suora: “Se io so che tu sei in pace e tranquillità, avrò più forza per partire, e chissà che non ci possiamo ancora vedere quaggiù…”.
E la via, quindi, per avvicinarsi alla giustizia? È fatta di pazienza, abbiamo detto, ma anche di cortesia, da usare con tutte le consorelle, come scrive dalla sua Alessandria a suor Teresa che stava in Brasile: “Mi pare che tutte, più o meno, hanno bisogno di conforto, e con una buona parola, con un atto gentile, si ottiene di più che coi rimproveri. Guadagnandone i cuori, potrai ottenere qualunque sacrificio, anche dalle più difficili di carattere”. E ancora, con parole accorate, a suor Cherubina, che aveva manifestato il suo dissenso su alcuni aspetti della vita comunitaria: “Occorre sopportare con pazienza, con generosità, la diversità di carattere, di educazione, specialmente delle sorelle che ci fanno a volte soffrire tanto; prendere il buono che vediamo in esse e sopportarne i difetti, pensando che noi pure, per prime, abbiamo tanto bisogno d’indulgenza e di compatimento per i nostri”.
Marco Impagliazzo
presidente della Comunità di Sant’Egidio