“Jl Manifesto cristiano”

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 “Beati i miti, perche’ erediteranno la terra”

PREMESSA

La dignità della persona, che ha le proprie radici nella creazione, ha il proprio compimento nella vocazione alla beatitudine divina. È proprio dell’essere umano tendere liberamente a tale compimento. L’uomo, infatti, agendo in piena libertà, può conformarsi oppure non al bene promessogli da Dio.

Abbiamo appreso dal Vecchio Testamento che Dio non si può vedere; ma ora nel suo amore, per mezzo del Figlio e “nella sua bontà verso gli uomini […], arriva a concedere a coloro che lo amano il privilegio di vederlo […] poiché ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio”[1]. Infatti siamo stati da lui creati perché lo conoscessimo e, conoscendolo, lo servissimo e lo amassimo. Questo processo porta allo stato di perfetta felicità, propria degli eletti in cielo. “Beati” sono coloro che sono pienamente e serenamente felici.

Dice il Catechismo della Chiesa cattolica che “le beatitudini sono al centro della predicazione prima di Gesù e poi degli apostoli. La loro predicazione riprende le promesse fatte al popolo eletto a partire da Abramo”, però portate non più al (solo) godimento terreno, “ma al regno dei cieli” (CCC 1716).

Sarebbe probabilmente erroneo volere scorgere in esse una sorta di lista di specifiche virtù da praticarsi in vista di “quel” premio speciale, ponendosi esse piuttosto come delle attitudini etiche, che possono riasssumersi nell’umiltà, nella pazienza, nella mitezza, nel saper imitare colui che è “umile e mite di cuore”. Anche se in ciò non consiste tutta la vita cristiana, almeno ne costituisce le basi. In tal modo le beatitudini formano una eccellente introduzione al discorso del monte che – nel suo insieme – è stato opportunamente chiamato “il Manifesto cristiano”. A seconda degli evangelisti, il discorso che Gesù tenne su una collinetta nei paraggi di Cafarnao, seduto come facevano i rabbi, il numero delle beatitudini varia, ma ciò ha poca importanza giacché lo scopo è sempre e soltanto uno: il regno di Dio[2]. Storicamente ed ermeneuticamente c’è una notevole differenza sia contenutistica sia stilistica perché Matteo parla delle beatitudini rivolto alla folla Ebrea, mentre Luca riferisce la predicazione attraverso Paolo, per il quale Gesù si rivolgeva “solo” ai discepoli. È consuetudine, parlando di beatitudini, fare riferimento alle otto di Matteo, nelle quali i destinatari di allora, di poi, di sempre apprendono che la felicità è possibile, la strada è tracciata: se il mondo proclama beati i ricchi perché possono permettersi quello che vogliono; se proclama beati i gaudenti, i potenti, i forti perché incarnano il successo, il Vangelo proclama beati coloro che si collocano davanti a Dio nella condizione di poveri, di miti. Eppure non riusciamo ad eludere la domanda angosciosamente vibrante: ma è possibile “oggi” che l’umanità faccia propria e si senta soddisfatta della proposta “del monte”? Chi glielo va a raccontare, e come, con quali argomentazioni, a chi ha perso il lavoro, a chi è stato sfrattato, a chi un lavoro non lo troverà mai, a chi non riesce a fare la spesa, che, nonostante tutto, “è” felice e “deve” sentirsi “beato” proprio per questo?

Onestamente, l’uomo di oggi, di quest’Italia che sembrava un’isola felice, un’oasi beata e per molti gaudente, come può credere al discorso delle beatitudini? Ecco perché la Chiesa non solo deve riscoprire il valore delle beatitudini, ma deve anche – come comunità di discepoli – annunciarle con la testimonianza della vita, con dei costumi spartani, nella sofferenza gioiosa di chi ha scelto di seguire Cristo, perché oltre a mostrare con fierezza la nostra “carta d’identità” di cristiani, ci convinciamo sempre più – come diceva santa Teresa d’Avila – che “solo Dio basta”.

MADRE MICHEL, LA SPIRITUALITÀ E LE BEATITUDINI

Dice Suor Maria Tamburrano che “continuando la riflessione sulle beatitudini come via privilegiata di conformazione a Gesù Cristo, vissuto da Madre Michel, presentiamo altri due enunciati importanti del discorso della montagna: beati i miti […] e beati quelli che hanno fame e sete della giustizia…”.

Perciò, proseguendo la tradizione, anche quest’anno ho il piacere di condividere questo gradito invito con il prof. Marco Impagliazzo.

Entrando direttamente nel tema, alle considerazioni di indole generale aggiungo che le beatitudini descrivono anche la carità del Cristo, oltre che a dipingerne il volto. È un modo all’apparenza utopico, ma tremendamente innovativo, di “raccontare” il Padre. Dice il prologo della Lettera agli Ebrei: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato anche a noi per mezzo del suo Figlio” (Eb 1, 1-2).

Il compito al quale siamo chiamati, specialmente negli attuali frangenti, per evitare di sprofondare nell’abisso dell’agnosticismo e del disinteresse che tende a generalizzarsi, è aggrapparsi alla realtà  del Cristo, afferrarla nella prassi della vita per poi tornare al Padre. Dice Matteo: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27).

Il Figlio lo rivela “anche” tramite la mitezza e, precisa Matteo, questa attitudine – beatitudine ci farà ereditare la terra. Ma che cosa si deve intendere con “mitezza”? La mitezza non vuol dire né mollezza né impotenza o incapacità di affrontare i marosi della vita. Specialmente nel vocabolario paolino, la mitezza (per la quale si è “beati”) è il contrario dell’arroganza, dell’orgogliosa autoesaltazione e simili atteggiamenti, con i quali l’uomo falsa e deturpa la sua dignità di creatura e di figlio di Dio. La mitezza, ripeto, non è disgiunta dall’umiltà, anzi con essa costituisce una diade: Gesù, infatti, è “mite e umile di cuore” (Mt 11, 29), però l’attitudine “mitezza-umiltà” non coincide con la “povertà in spirito”: anche se le origini di questo accostamento sono molto remote, per nessun motivo la mitezza può essere omologata ad assenza di valore spirituale, a mancanza di dignità.

Allora è più esatto asserire che beati possono essere i ricchi se, come Gesù, vivranno un totale distacco dalla ricchezza, cosa che non riuscì al “giovane ricco” incapace di rinunciare alle proprie ricchezze e si preclude – almeno in quel momento – l’accesso al regno dei cieli (cfr Mt 19, 22).

LA MITEZZA NELLA VITA DI M. MICHEL

Madre Teresa nei rapporti interpersonali si è sempre attenuta ad un tratto signorile, affabile, aperto. Ciò le derivava non solo dal rispetto del prossimo, ma anche da una vera e propria benevolenza, dall’accettazione dell’altro.

Non è certamente difficile trarre, dalle sue numerose testimonianze scritte (per lo più lettere), esempi del suo spirito orientato alla mitezza. Si potrebbe assumere questo suo pensiero come emblematico di una condotta di vita: “Ai giorni nostri, con lo spirito di ribellione che c’è più o meno in tutte, non si può vincere che con l’umiltà e la dolcezza” (lettera a Suor Maria, 14/4/1912, Tonengo).

Ora, partendo dalle più antiche testimonianze e procedendo cronologicamente, io riporterò un certo numero di pensieri della Madre traendoli dal suo epistolario. L’interfaccia è rappresentato in prevalenza da suore (le sue “figlie”) ma anche da sacerdoti e persone amiche.

Certamente le prime sono due lettere del 1898 a don Antonio Tricerri: l’una del 12 luglio, la seconda del 15 agosto.

“Raccomando tutto al nostro caro Santo sotto la cui speciale protezione è posta codesta Casa, perché faccia quello che vuole, e ci renda docili istrumenti per eseguire i suoi ordini, e così fare la volontà del nostro caro Signore”.

 Nella seconda lettera a don Tricerri dice:

 “Appena avrò un po’ di provvidenza, verrò costà per portare qualche cosa. Siamo in momenti di prova terribile, ma non dubito dell’aiuto del Signore quando lo crederà opportuno per far trionfare l’opera sua… E se non lo volesse, Fiat! Sempre Fiat!… purché si faccia la sua volontà, sempre in tutto.

La terza testimonianza la si trova in una lettera che invia da Roma il 19 gennaio 1904 a Suor Teresa Accornero, e le parla di don Orione, eccola: “Qui ho visto il Reverendo Don Orione e gli ho parlato parecchie volte delle nostre cose. Faccia il Signore quello che è meglio, solo prega e fa pregare che possa far sempre la sua santa volontà in tutto, a qualunque costo. Egli mi ha aiutato, e mi aiuta, e ne ringrazio Dio, ma è occupatissimo e dobbiamo proprio sforzarci di camminare da soli. Quanto costano questi primi passi, e a me specialmente che ho tanto da vincere! Purché il Signore mi dia la forza fino alla fine!”.

Alla medesima suora scrive da Lafaiete-Queluz il 20 novembre 1906:

“L’unico mio desiderio è di poter incominciare presto questo Noviziato, o meglio questa Casa veramente Madre, dove le Suore che hanno lavorato e che si sentono di avermi per Madre possono venire a lavorare ancora per quello che possono, e a pensare alla loro anima, pregando e servendo il Signore nella Santa carità e unione fra di loro come vere sorelle, e amando il Signore tanto tanto tanto, da consumarsi d’amore per Lui, e da ripararlo della passata freddezza. Tutto per me si concentra in questo: Amare il Signore e sacrificarsi per Lui. Tutte le opere esterne poco o punto m’interessano, ma sono necessarie per procurarci i mezzi materiali per vivere e per fare un po’ di bene alle anime”.

Sempre a Suor Teresa scrive da San Paolo il 22 agosto 1906:

“Certo il sacrificio è grande, ma grande sarà anche la ricompensa che ce ne darà il Signore. Coraggio, dunque! E quelle che vengono siano tutte piene di buona volontà e unite nel Signore per poter fare il bene, e far onore alla Congregazione, e soprattutto dar gloria a Dio facendo la sua santa volontà in tutto, nel che consiste tutta la santità. Ho bisogno tanto dell’aiuto delle vostre preghiere per aver la forza e la virtù necessaria per portare la grossa croce che il Signore mi ha dato. Pregate dunque per me!”.

E il 9 febbraio 1907:

“Sia pur piccola questa casa, e povera, e disprezzata agli occhi del mondo, purché vi sia la pace e la carità fra di noi, e questa vi sarà, se noi ameremo veramente il Signore, e se Egli regnerà nei cuori come assoluto Padrone. Io non cerco, non desidero, non bramo che una cosa sola, cioè che tutte siano un cuor solo ed un’anima sola nel SS.mo Cuore di Gesù. Questa è la mia preghiera di tutti i giorni, di tutte le ore. […] Mi rincresce tanto di sentire che il Reverendo Signor Pievano sia stato ammalato. Spero che a quest’ora si sia perfettamente rimesso. Noi preghiamo sempre per Lui che tanto fa per noi, e ci raccomandiamo alla carità d’un momento speciale per noi nella S. Messa. Come questi dolori, come queste separazioni e queste prove stringono ancor più i legami che ci uniscono nel Signore! Io credo che Dio le permette appunto perché si svelino i sentimenti occulti di tanti cuori, e si conosca la loro fedeltà. […] Se il Signore si è voluto servire di noi più cattive per dar vita a questa congregazione, noi non dobbiamo che umiliarci, e assecondare lo Spirito del Signore che spira dove vuole, e metterci con tutta la buona volontà e con forza a seguire senza rispetto umano le sue divine ispirazioni. Già troppo tempo si è perduto, ed ora dobbiamo con tutto l’ardore procurare di avanzare ed operare e non più rimanere inerti e timorose lasciandoci sopraffare dal nemico. Il Signore sia proprio nei nostri cuori, e si degni di manifestarci la sua volontà e darci la grazia di poterla eseguire sempre. Coraggio dunque, e preghiamo reciprocamente perché ci benedica e ci assista”.

Ed ora una lettera del 3 ottobre 1910 a don Tricerri, lo stesso destinatario con il quale ho iniziato quest’incursione nell’epistolario di Madre Michel, scegliendo due missive del 1898: “Mi consolò la notizia che mi dà Suor Caterina: lo speravo, e prego il Signore che le dia forza e virtù da resistere fino alla fine. Senza di questa non si fa nulla di duraturo nella fabbrica della nostra perfezione spirituale e non ci possiamo dire spose di Gesù Crocifisso […]”.

Ad un altro sacerdote, padre Gatti, aveva confidato – scrivendo da Queluz il 2 aprile 1907 – che lì le cose “procedono, lentamente ma procedono”. Però avverte lo stesso un senso di sconforto: “Io però sono in uno stato di disanimo tale che ho proprio bisogno d’una parola forte perché mi dia la vita, e mi faccia camminare. Anche queste figlie fanno quello che possono per aiutarmi, ma se non fosse per Suor Maria che malgrado tutto, resiste e mi dà un poco d’anima, e ci mantiene, si può dire, andando alla questua, non so come farei ad andare avanti. Suor Agnese può fare molto, ha buona volontà, ed è buona, ma anch’essa ha bisogno d’una parola di conforto e d’incoraggiamento. Il Signore però la sostiene, e sono meravigliata io stessa del cambiamento che ha fatto, ma è duro sapere di essere proprio sole, e dover camminare così senza guida, affidate solamente alla D. Provvidenza. Sempre con il timore di sbagliare e di non fare la volontà di Dio”.

Non molto tempo dopo, M. Michel torna a scrivere (Queluz; 10 agosto 1907) a padre Gatti: “Oh, che pena è per me di vedere continuare questo stato di cose! … Eppure che posso fare se non che piangere e stare nascosta finché al Signore piacerà di tenermivi, e volesse che fosse per sempre! … Egli, se vuole, in un momento può cambiare i cuori, e far conoscere la verità a quelli che possono portarvi rimedio. Per parte mia, mi pare di non aver fatto la mia volontà e di aver sofferto qualche cosa, quindi spero che il Signore avrà misericordia e dopo d’averci castigate ci darà pure consolazione… E se a Lui non piacesse darcene nessuna, ci darà almeno la forza e la rassegnazione di soffrire per amore suo quest’abbandono e questa umiliazione, pur di poter fare un po’ di bene”.

Il 14 aprile 1912, da Tonengo, Madre Michel risponde alla carissima Suor Maria per dirle, tra l’altro, che “il Signore vuole che stiamo ben basse e umili”. Un anno dopo le scriverà: “Quante sventure in questo brutto mondo, conseguenze del peccato, quante tribolazioni d’ogni genere, quanti dolori intimi e cocenti che Dio solo conosce, quante infermità morali e fisiche, quante miserie su questa povera terra! Oh, carissima figlia e Madre insieme! Come ho bisogno del tuo spirito religioso, della tua fede, della tua carità per non perdere questa scintilla che tu avevi acceso coll’aiuto di Dio in questo mio povero cuore, e che sento spegnersi se non ho vicino chi mi aiuta a coltivarla… Sono stanca e purtroppo vedo che mi approssimo alla fine senza aver compiuto la mia missione. Una sola cosa domando al Signore, che ci dia il buono spirito”.

Gli stessi concetti riprende e ribadisce il 16 gennaio 1916, in piena guerra: “Che desolazione! Col bisogno che abbiamo di essere buone, di aver la pace fra noi, perché siamo poche, e il lavoro è molto e la vigna del Signore è quasi deserta, ci perdiamo in queste miserie e offendiamo il Signore. T’assicuro che sono proprio desolata e ti scongiuro di fare quanto puoi per ristabilire la pace.

Ma che cosa ci ha insegnato il Signore? … È in questi momenti che dobbiamo mostrarci vere sue seguaci e figlie; ma, se facciamo così, come ci potrà benedire? … Meglio allora essere secolari, se seguiamo le massime dei secolari, di farci giustizia da soli. La virtù sempre trionfa e i Superiori sono qui per dar ragione a chi ce l’ha. Ma, a questa distanza, coi dolori che abbiamo, bisogna aver pazienza e dar tempo al tempo. Oh, povera, cara vigna di Queluz, in che stato è ridotta! Sempre disunioni, sempre bisticci, e Gesù è offeso, e il nemico trionfa. Quanta amarezza, quanto dolore in fondo a questa povera anima mia…”. Terminato il tremendo conflitto, scrive da Alessandria alla “cara suor Dorotea” (25/7/1918): “Gesù è tanto buono che non vuole da noi che la buona volontà di amarlo e di servirlo con fedeltà e generosità, per quanto lo consentano le nostre deboli forze. Fatti coraggio, dunque, e quando ti accorgi di essere caduta in qualche difetto, umiliati… subito. E poi rialzati con più lena di prima, senza scoraggiarti delle tue miserie, perché il Signore gradisce di più un atto di umiltà dettato dall’amore, che se tu facessi le opere più strepitose in cui vi entrasse un po’ d’amor proprio”.

Ora mi trovo un testo sine data, anch’esso indirizzato a suor Dorotea (dissidente): Lo includo sia perché potrebbe essere contemporaneo, sia perché esprime i medesimi concetti: “Sopportare con pazienza, con generosità, la diversità di carattere, di educazione, specialmente delle sorelle che ci fanno a volte soffrire tanto; prendere il buono che vediamo in esse e sopportarne i difetti, pensando che noi pure, per prime, abbiamo tanto bisogno d’indulgenza e di compatimento per i nostri”.

Una delle ultime lettere messe a mia disposizione è del 30 giugno 1920, ed è indirizzata da Rio a Suor Maria. È molto lunga, circostanziata, affettuosa, davvero dettata da quell’anima santa che era Madre Michel. Ad un certo punto dice: “La nostra piccola Congregazione ha più bisogno di sode virtù che di qualunque altra cosa”.

Mi congedo con la lettera del 17 giugno 1924 spedita da Alessandria a suor Teresa: “Sii sempre generosa, e credi che coll’umiltà e colla bontà si ottiene molto di più che con la durezza dell’amor proprio. Cerca di accontentare le Suore in tutto quello che puoi, domanda consiglio volentieri, e cedi in tutto quello che non è peccato”.

CONCLUSIONE

Nel discorso del monte Gesù rifonda le relazioni basandole sulla logica del servizio e del dono di sé. La sua eredità è la sua Parola ed il suo ministero. Egli ci insegna a ricercare la vera felicità a partire dalla terra, nella logica delle beatitudini. Perché noi crediamo e non ci sentiamo abbandonati, egli ci ricorda che noi dobbiamo seguire Lui, venuto tra noi “non per essere servito, ma per servire” (Mc 10, 45). Così, care sorelle, ha fatto Madre Michel.

                                                                              Mons. Vincenzo Bertolone

Arcivescovo Metropolita di Catanzaro – Squillace

[1] Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, 4, 20, 5, in CCC 1722.

[2] Matteo (5, 3-10) ne elenca otto che, però, possono diventare sette perché la seconda è considerata da molti un’interpretazione derivata dal salmo 37, 11; ovvero nove se si aggiunge anche il versetto 11: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno [..] perché grande è la ricompensa nei cieli”. L’evangelista Luca ne menziona (6, 20-22) quattro, cui corrispondono altrettante minacce (le “maledizioni” ai ricchi, ai sazi, ai gaudenti, a chi si lascia fuorviare dal mondo).

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