Le sofferenze vissute insieme …

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“Beati gli afflitti perche’ saranno consolati”

 

Se c’è una beatitudine che rivela tratti fondamentali della vita e della vocazione di madre Teresa Michel è quella che riguarda l’afflizione. Nel corso della sua lunga e affascinante avventura spirituale, vissuta a cavallo tra il XIX e il XX secolo, non sono mai mancate difficoltà di tutti i tipi, interne ed esterne alla vita della Chiesa e della sua congregazione, insieme alla condivisione dei dolori e delle sofferenze dei poveri che facevano parte a pieno titolo della sua famiglia religiosa.

Si è trattato di una dimensione rilevante sin dalle origini del cammino intrapreso insieme alle sue Piccole Suore della Divina Provvidenza e ha conosciuto un’evoluzione alla luce delle Scritture. Meditare su “Beati gli afflitti perché saranno consolati” ha allontanato Teresa Michel dalla tentazione di separare la prima parte della Beatitudine dalla seconda, l’afflizione dalla consolazione, illuminando di speranza evangelica il suo cammino, le gioie come gli ostacoli e le sofferenze vissute insieme alle sue sorelle.

 interessante notare che l’afflizione, presente in diversi modi sin dall’inizio della sua conversione, non viene mai letta come tristezza, ma come realtà legata alla condizione umana, da accompagnare quindi con la vicinanza e la solidarietà. “Non bisogna mai lasciarsi vincere dalla tristezza – scrive a suor Dorotea nel luglio del 1919 -, ma combatterla per quanto si può, onde non trapeli al di fuori. Presto sarete qui di ritorno, e potrete prendere parte ai Santi Esercizi Spirituali. Come se ne ha bisogno, dopo un anno passato fra tante cure e distrazioni!”.

Risultano evidenti da questo brano due aspetti decisivi della spiritualità di madre Michel in relazione alla beatitudine che stiamo trattando. Il primo è la necessità che le sue sorelle non cedano mai alla tristezza, “combattendola” per non farla trasparire all’esterno. Non si tratta evidentemente di un tentativo di nascondere sentimenti più volte giustificati dalle difficoltà contingenti. È piuttosto espressione di una volontà di aderire al Vangelo in modo radicale: come i discepoli di Gesù anche le sue suore dovevano avere un atteggiamento sereno e gioioso, tale da risultare una testimonianza importante per tutti: per loro stesse, per consolarsi e incoraggiarsi a vicenda, ma soprattutto per chi stava “al di fuori” e doveva cogliere nei loro volti il tesoro di una vita spesa per gli altri.

Il secondo aspetto è la coscienza di avere nelle Scritture il rimedio più importante e più accessibile all’afflizione che accompagna la vita quotidiana, quegli “Esercizi Spirituali” di cui si riconosce un grande “bisogno”. Ed è la piena consapevolezza del limite umano di fronte ad eventi e situazioni all’apparenza insormontabili.

Non c’è del resto alcuna volontà di eliminare o, come si è accennato, di nascondere il dolore. Al contrario, di difficoltà materiali e spirituali è pieno l’epistolario di madre Michel, corredato da un’infinità di esempi concreti. Ci sono, soprattutto all’inizio, quelle che riguardano il discernimento della propria vocazione. Si legge, in una lettera della Beata del luglio 1895: “Le prove non ci mancano, e neppure le tribolazioni; e se da una parte ne gioisco, dall’altra sono ancora tanto debole che a volte ne rimango spaventata e scoraggiata!”. La testimonianza della propria debolezza, anche fisica, come di quella delle proprie sorelle, emerge in tanti altri passaggi della vita religiosa e missionaria delle Piccole Suore della Divina Provvidenza. Scrive, con parole preoccupate, nel gennaio 1923 a suor Agnese: “Qui siamo proprio stremate di forze… Parecchie sono ammalate e altre non sono a letto, ma stentano a stare in piedi…: ricoverate da assistere e da curare moltissime, e postulanti quasi nessuna… Ne devono venire tre o quattro e anche più, ma non si decidono mai…, e così, dopo queste novizie, ultime vestite, vi sarà un intervallo che spero non si vorrà prolungare troppo, perché altrimenti come si farà?… Ma non dobbiamo diffidare, non è vero?… Confidiamo invece moltissimo nella infinita misericordia del S. Cuore di Gesù… Egli non permetterà che si isterilisca questo albero, che Egli stesso ha piantato”.

Appare in questo passaggio epistolare la consapevolezza che l’opera cominciata non è frutto delle proprie mani, ma di quelle del Signore e che solo affidandosi a Lui si otterrà protezione e consolazione dall’afflizione che si sta vivendo.

Per una più profonda comprensione di questa beatitudine e del conforto promesso dal Signore appare decisiva per madre Michel l’amicizia con i poveri, quel legame che era cresciuto sin dall’inizio della sua vocazione, diventando uno dei cardini della spiritualità delle sue suore. Sono loro, i poveri, i primi afflitti da avvicinare, tanto da rendere come necessaria la loro presenza, “perché – come diceva la Beata – nella povertà c’è sempre il Signore, e c’è meno pericolo che l’amor proprio c’inganni e ci faccia fare dei passi falsi…”.

C’è, anche in questa vicinanza ai poveri, la consapevolezza dei limiti delle opere intraprese, espressi in tante lettere, come questa indirizzata a suor Teresa nel febbraio 1919: “Quante creature mi si presentano ogni giorno in condizioni pietose, e che non posso consolare né difendere efficacemente, perché non ho i mezzi per riunirle, né il personale formato per occuparsene con vantaggio…”. Oppure la confessione dei propri limiti personali, come in questo scritto del giugno 1923: “Quante volte, quando più sento la mia impotenza e debolezza e miseria grande, vorrei fuggire lontano, temendo di rovinare anziché aiutare l’Opera del Signore; ma una forza misteriosa mi trattiene, e vado avanti come posso, umiliandomi di non sapere fare di più”.

È quella stessa “forza misteriosa” che crea un legame irrinunciabile con i poveri. Come esprime nel giugno del 1931 di fronte alla necessità di dover cambiare il luogo in cui vivere con le proprie sorelle: “L’andare in una Casa nuova, costruita solo per le Suore, mi spaventa e, non vedendovi più i poveri, mi pare di non avervi più il mio posto, e di aver finito la mia piccola missione su questa terra”. Senza poveri, senza afflizione, non c’è vita evangelica. Ma anche senza quella misericordia, appresa dal Vangelo e che sola può guarire: “Occorre – scrive in un altro momento – che le nostre labbra lascino cadere sui cuori parole allegre, che ricreino l’afflitto, sorrisi amorosi che sollevino gli infermi”. Perché ci sono parole che affliggono e parole che, al contrario, consolano. Ed è necessario vivere questa beatitudine non con le categorie del mondo, ma con quelle del Signore: “Lui – scrive nel 1899 – accetterà il sacrificio e compatirà la nostra debolezza, e ci userà misericordia, lo spero, in vista di tante povere creature infelici e innocenti, alle quali siamo in obbligo di provvedere…”. Là dove l’accostamento delle due parole, “infelici” e “innocenti”, è rivelatore di una profonda sensibilità evangelica: se l’afflizione ci accompagna e si ritrova in primo luogo nei poveri, togliendo ad essi gran parte della felicità terrena, non è certamente colpa loro (che sono nell’”innocenza”), ma del male che è presente in questo mondo e dal quale si guarisce solo vivendo le beatitudini del Vangelo.

 Marco Impagliazzo

presidente della Comunità di Sant’Egidio

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