Vocazione alla beatitudine divina

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“Beati i poveri in spirito,

perché di essi e’ il Regno dei cieli”

 

       Premessa

La dignità della persona, che ha le proprie radici nella creazione, ha il proprio compimento nella vocazione alla beatitudine divina. È proprio dell’essere umano tendere liberamente a tale compimento. Infatti l’uomo, agendo liberamente, può conformarsi o non al bene promessogli dal Creatore.

Il Catechismo recita (al n. 1716): “Le beatitudini sono al centro della predicazione di Gesù. La loro proclamazione riprende le promesse fatte al popolo eletto a partire da Abramo. Le porta alla perfezione ordinandole non più al solo godimento di una terra, ma al regno dei cieli…”. E, dopo averle elencate tutte e nove (la nona, che non si comprende perché, viene spesso dimenticata, è la sintesi, il traguardo del cammino dei “beati” giacché in essa Gesù si rivolge a tutti i suoi seguaci d’ogni tempo, luogo ed etnia, chiamandoli “beati”: beati voi quando vi insulteranno […] per causa mia), il CCC aggiunge che esse “dipingono il volto di Gesù Cristo e ne descrivono la carità: esse esprimono la vocazione dei fedeli associati alla gloria della sua passione e della sua risurrezione…” (n. 1717).

  1. Madre Michel e le beatitudini

Ho detto poc’anzi che le beatitudini descrivono la carità del Cristo oltre a dipingerne il volto. È un modo di “raccontare” il Padre. Dice il prologo della lettera agli Ebrei: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del suo Figlio” (Eb 1, 1-2). Matteo dirà: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27). Gesù “rivela” il Padre a tutta l’umanità, in termini di amore, misericordia, carità, beatitudine. Ma, in particolare, lo ha rivelato – e continua a farlo – ai santi, cioè a tutti quei membri della famiglia umana che per la loro perfezione di vita, la pratica delle virtù, eletti della redenzione di Cristo, e – perciò – modelli della vera vita cristiana.

Tornando per un attimo alle Beatitudini, specialmente secondo la versione lucana, che le personalizza (“beati voi, che…”) e le indirizza non soltanto ai discepoli e alle persone che in quella giornata ascoltavano Gesù che parlava del cosiddetto “monte”, gli elementi che mi preme evidenziare in connessione con l’esperienza religiosa della madre Michel sono due. Il primo è che il compenso promesso ai beati è che le qualità che Gesù cerca nei suoi seguaci sono delle attitudini a vivere in modo virtuoso. In una parola, si tratta di vivere d’umiltà, di pazienza, di dolcezza: tutto e soltanto per amore dei fratelli e l’unico modo di amare i fratelli è cercare di imitare Cristo, cioè colui che è “umile e mite di cuore”.

Oltre tutto, in questa visione le Beatitudini si rivelano davvero come il “Manifesto” cristiano, in quanto espongono in termini precisi il significato della vita cristiana, come certamente interpretato da madre Michel.

  1. “Beati i poveri in Spirito…”: Come fu vissuto dalla Fondatrice

L’espressione “poveri in spirito” ha posto nei secoli non pochi problemi di carattere interpretativo. In un primo momento i Padri privilegiarono porre l’accento ora su “poveri” ora su “in spirito”. Chi predilesse la seconda accentuazione intese indicare nella definizione scritturale una volontaria rinuncia alla ricchezza, mentre gli altri trasferirono il termine “poveri” su di un piano squisitamente spirituale. Spesso le due esegesi sconfinarono l’una nell’altra. Successivamente si pervenne ad un atteggiamento di vera e propria conciliazione, chiarendo che dire “povertà in spirito” e “umiltà” era la medesima cosa (così s. Leone Magno, Agostino, Clemente Alessandrino, Basilio ed altri Padri).

Madre Michel si riconosce in questa interpretazione diciamo “di sintesi” e, ciò che più conta, la vive, la fa propria, per sé e la lascia in eredità alle sue “figlie”. Per lei “beati i poveri in spirito” attiene a:

  • chi è umile, chi sente di essere niente, ma confida in Dio;
  • chi percepisce la propria completa dipendenza da Dio;
  • chi si spoglia di sé per accettare il disegno che Dio ha su di lui.

In pratica, una completa identificazione in Cristo. D’altra parte per la Madre tutta la vita di Cristo, sin dal suo concepimento, è rivelazione del senso autentico delle parole “beati i poveri in spirito”. Egli, infatti, ci ha comunicato e ci comunica, mediante le tante testimonianze di uomini e donne che lo hanno seguito sulla sua stessa strada, che cosa sia la povertà evangelica e come possa effettivamente rispondere al bisogno di felicità dell’uomo. In lei si concretizza una povertà che può parlare alla ragione e al cuore di tutti, senza distinzione alcuna. Beati, allora, potranno essere i ricchi se, come lui, vivranno con totale distacco la propria ricchezza, riconoscendola come dono gratuito e dunque da condividere con i più poveri e miseri; beati potranno essere i poveri che sapranno confidare in Dio Padre anche nei momenti di più profonda desolazione. Beati saranno tutti coloro che della povertà di Cristo faranno non solo la loro regola di vita, ma il loro stesso habitus interiore, perché la prima condizione per essere felici è diventare persone interiormente povere e libere, umili appunto.

Prendiamo queste sue parole dalla preghiera al Signore: “Il Signore volle da me questo sacrificio (di una forte umiliazione) anche per far vedere che non è una misera creatura, come sono io, che posso essere la Madre di quei poveri figli, bensì la Divina Provvidenza, la nostra assoluta Padrona, e che Ella provvede e provvederà sempre più generosamente ai suoi figli a misura che questi avranno maggior confidenza e fede in Essa… Non voglio quindi farle il torto di dubitare di Essa, ma, sicura che non può mancare a chi ad Essa si affida, caccio via le troppo vive preoccupazioni e mi abbandono alla Sua materna bontà…”.

IL 10 agosto 1907, in una delle sue numerose lettere a suor Dorotea, scriveva: “Il Signore, se vuole, in un momento può cambiare i cuori, e far conoscere la verità a quelli che possono portarvi rimedio. Per parte mia, mi pare di non aver fatto la mia volontà e di aver sofferto qualche cosa; quindi spero che il Signore avrà misericordia e, dopo averci castigate, ci darà pure qualche consolazione. E se a Lui non piacesse darcene nessuna, ci darà almeno la forza e la rassegnazione di soffrire, per amor suo, questo abbandono e questa umiliazione, pur di poter fare un po’ di bene, e dargli gusto…”.

In un precedente articolo ho messo in risalto la devozione, oltre alla stima ovviamente, che la Madre provava nei confronti di don Orione. Ne danno testimonianza le lettere che sovente ella indirizzava al santo sacerdote. In particolare, in quella datata 20 marzo 1901 diceva: «Dobbiamo umiliarci tanto e domandare senza posa al Signore che ci aiuti, che ci illumini, che ci assista e ci guidi in tutto».

Ad una “figlia” angosciata, la Madre dolcemente spiega che tutte e tutti dobbiamo cercare Dio con cuore libero, come ci dimostrano la vita di tanti beati che, sulle orme di Cristo, hanno ritenuto la povertà spirituale necessaria per entrare in comunione con Dio. Entrare in comunione con Dio comporta necessariamente un atteggiamento di totale accettazione della sua volontà, dovesse pure costarci lacrime, dolori, umiliazioni. La Madre lo ripete apertis verbis in una lettera del 1° aprile 1921 a suor Maria: «Sacrifichiamoci fino alla fine. Accettiamo le umiliazioni, le contrarietà, i disgusti d’ogni genere, che gli piacerà domandarci, per abbattere il nostro amor proprio, e salvarci. Oh! Come saremo contente un giorno d’aver potuto soffrire qualche cosa per il nostro Dio, nostro Sposo, il nostro Tutto!».

Che questa sia una costante nel pensiero della Madre lo si evince considerando le date dell’epistolario. Quella appena citata era del 1921; questa è del 14 dicembre 1906: «Mia carissima suor Agnese: “Noi col silenzio, con la preghiera, con l’umiliazione facciamo di più che se ci difendessimo con le più belle parole. Il Signore ha voluto umiliarmi, ed io meritavo ben di peggio. Quello che so è che voglio amarlo, servirlo, ripararlo per quanto posso e che questa è l’unica grazia che gli chiedo per me e per quelle che mi diede per Figlie…”».

Conclusione

Papa Benedetto XVI scorge nelle beatitudini (cui ha dedicato un capitolo del suo Gesù di Nazaret) una sorta di autoritratto del Cristo: «Le beatitudini sono promesse nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell’uomo che Gesù inaugura, il rovesciamento dei valori».

Nel discorso della montagna Gesù rifonda le relazioni con gli altri sulla logica del servizio e del dono di sé. Lascia un’eredità, insegna come si possa e si debba ricercare e raggiungere la vera felicità, perché la vita acquista senso solo se la si dona e la dignità umana più alta si esprime nel servire. L’icona concreta di questo paradosso è Gesù stesso, che «non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10,45). Come ha fatto, in realtà, la madre Michel.

 Mons. Vincenzo Bertolone

Arcivescovo Metropolita di Catanzaro – Squillace

 

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