Umiltà e spirito di servizio in madre Teresa Michel
“Io non ho fatto niente, ha fatto tutto la Divina Provvidenza; io sono sempre stata come un asinello, trascinato lungo la via”
(B. Teresa Michel)
Madre Michel, al secolo Teresa Grillo, ha espresso nobilmente la religiosità femminile italiana tipica di un periodo di transizione, essendo vissuta a cavallo dell’Otto e del Novecento (1855-1944). L’espressione più bella del suo cammino di santità la rileviamo nell’esercizio dell’umiltà che si tradusse in spirito di servizio.
La parola “umiltà” deriva dal latino “humus” (terra). Il terreno ci fa considerare che siamo “creature”, e non i Creatori che vorremmo, o pretendiamo di essere. Ci fa riconoscere “dipendenti” e non indipendenti. L’umiltà è strettamente legata all’amore (vedi la descrizione di Paolo di agape in 1 Cor 13). È umiltà che diventa altruismo. I Padri della Chiesa esaltano l’eccellenza dell’umiltà e indicano il Cristo come l’archetipo di tale virtù. I discepoli devono avere la mentalità di Gesù Cristo, che promette il regno ai poveri di spirito (Mt 5,3), e che estende l’invito ai miti: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e che offre l’esempio più profondo di umiltà nell’accettazione volontaria della Croce: “Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di Croce” (Fil 2,8). L’umiltà del discepolo cristiano dev’essere espressa non solo verso Dio, ma anche verso i fratelli nella comunità cristiana e, in verità, verso tutti coloro che portano l’immagine di Dio. L’umiltà di Gesù è un modello. Lavando i piedi ai suoi discepoli, egli diede un esempio: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi” (Gv, 13,14-15).
Nella sua lunga esistenza terrena, la Madre si è sforzata di vivere l’umiltà, che ha avuto un ruolo di prima importanza nella sua vita morale e spirituale. Per San Tommaso essa fa parte della modestia, è da collegare alla temperanza, in quanto può moderare secondo verità le aspirazioni dell’uomo e il sentimento del proprio lavoro e delle proprie capacità.
Nel primo regolamento dell’Istituto del 2 novembre 1898, è scritto: “Non si può amar Gesù se non si ama l’umiltà. L’umiltà sia vera umiltà di cuore, vera e sincera. Se il vostro cuore è umile troverete la vera pace dell’anima. Non gonfiatevi, non esaltatevi, non presumete delle vostre forze, ma conservatevi discrete, prudenti e confidenti in Dio. Non contraddite mai, non disputate ma siate sempre pronti a cedere in tutto. Se siete veramente umili non giudicherete mai alcuno, e se dovete giudicare per la carica di cui siete investite, non condannate ma scusate, pensate sempre bene di tutti, e pigliate sempre le cose in buona parte. Siate sempre umile di mente, ed evitate ogni curiosità, soprattutto nelle cose che non appartengono a noi. Osservate l’umiltà nel corpo con essere composte nel camminare e parlate con religioso contegno. Abbiate pure un’umiltà esteriore di pratiche umilianti, regola comune di tutte le comunità religiose, nelle inclinazioni, genuflessioni agli altari, nell’inginocchiarvi davanti ai Superiori e anche alle semplici suore”.
La colpa è un atto di superbia. Ne è il contrario l’umiltà, che ci fa aderire alla volontà di Dio e ci fa avvicinare gli uomini in solidarietà ed eguaglianza fraterna. “Siate modesti e circospetti. Osservate in silenzio ciò che non può essere dimostrato o compreso, e siate umili di fronte all’essere supremo che solo conosce la verità” amava ripetere Jean Jacques Rousseau. Dal suo canto, Thomas Merton ha lasciato scritto: “L’orgoglio ci rende finti, l’umiltà ci rende veri”. L’umiltà ci fa rigettare la menzogna dell’orgoglio, della vanità, dell’autocompiacimento egoistico e narcisistico. Al riguardo, la Madre scriveva: “State sottomesse alle disposizioni della Divina volontà senza mormorazione, ma trovate in ogni cosa motivo per ringraziare Iddio. Osservate l’umiltà col prossimo specialmente se rivestito di autorità, obbeditegli. Non disprezzate nessuno, ma osservate in ognuno le virtù. Lodate volentieri il prossimo, onoratelo in ciò che è giusto, mettetevi al disotto di tutti. Praticate l’umiltà col pregare di cuore Iddio che vi faccia conoscere le vostre miserie”.
C’è un altro testo illuminante della Madre alle suore, nel quale si lega all’umiltà l’amore a Cristo: “Per essere “Piccole Suore” della Provvidenza, non basta, figlie mie, portarne il nome: occorre essere piccole dinanzi a Dio, riconoscendo la nostra impotenza a qualunque bene senza il suo aiuto celeste; occorre essere forti, saper farsi una gioia del nascondimento, un onore del sacrificio, un ideale di vita della carità”. Alla base dell’ascesi ella poneva, dunque, l’umiltà, radice e madre di tutte le virtù. L’umiltà diventa il suo proprio “io”, l’essenza del suo modo di pensare e di agire come risulta chiaramente dalle sue lettere.
Attraverso l’umiltà l’uomo conosce se stesso e Dio. Come il fuoco riduce in cenere e consuma anche le cose grandi, così l’umiltà costringe il superbo a piegarsi, a sottomettersi ripetendo le parole del Genesi: “Polvere tu sei e in polvere tornerai” (3,19). Questa virtù ha come fine la liberazione dell’uomo sia dai beni di questo mondo, sia dal proprio egoismo. Per essere idonei all’incontro con Dio e con il prossimo. Madre Michel era tanto austera con se stessa quanto generosa con gli altri: segno dell’esperienza che la legava a Dio. Gli esempi che l’Istituto da lei fondato riporta, per avvalorare l’umiltà della beata, si possono trovare tutti nella vita quotidiana: piccoli servizi resi ai fratelli, particolari attenzioni loro riservate, incombenze servili che il buon andamento di una comunità religiosa esige. Tutte azioni che colpivano chi le era accanto e si trasformavano in luminosa testimonianza. Era tale la sua umiltà da indurla a preferire essere ancella più che maestra ed era così profondamente connaturata con la sua esperienza spirituale da indurla a non considerare più l’interesse proprio ma quello degli altri. L’umiltà da lei testimoniata ebbe sempre come riferimento e fondamento Gesù, e si manifestò sostanzialmente in due atteggiamenti: di abbassamento e svuotamento: l’uno di esaltazione, di proclamazione l’altro.
Considerare il prossimo superiore a se stessi significa fare proprio l’insegnamento di Gesù, venuto non per essere servito, ma per servire fino all’estremo. Essere dono per l’altro: questo era uno dei principi della madre. Al suo direttore spirituale scrisse: «Siamo miserabili, Padre, tanto miserabili; ma sovente il Signore si serve dei più miserabili per farli strumento delle sue misericordie…» (27.12.1905). E ad una sua consorella: «Non abbiamo, cara mia, paura di umiliarci, di abbassarci. È così che visse Lui su questa terra, e così vuole che vivano i suoi seguaci…» (21.5.1921).
C’è anche qualche altro aspetto da sottolineare nell’umiltà della Madre, collegato direttamente ai lineamenti della sua santità: fuggiva la vanagloria e l’ipocrisia; le sue opere buone le faceva in silenzio e nel nascondimento, così che difficilmente potevano essere percepite se non da coloro che ben sapevano. Nelle Costituzioni al n. 9 è scritto: “La sua vita incominciò ad essere una testimonianza viva di abbandono filiale a Dio, nel servizio al fratello, principalmente al più bisognoso: al cieco, al paralitico, al muto, all’infermo, all’infanzia abbandonata, all’anziano solitario, al debole mentale”.
Le si può adattare assai bene ciò che San Paolo afferma della carità: è paziente e benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia; non manca di rispetto, non cerca il proprio tornaconto, non si adira, dimentica il male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (cfr. 1 Cor 13, 4 – 7). Non ci può essere santità senza umiltà, né miracoli, né predicazione, né opere grandiose, perché tutto sarebbe fatto invano; perché anche la minima azione, se non fatta per la maggior gloria di Dio, la si fa per propria vanagloria e superbia, pervade l’uomo e lo porta alla perdizione. Anche la preghiera che la Madre eleva al cielo è intrisa di umiltà.
Spesso, quando pregava, amava ripetere: «Mio Sposo. Nome dolce e soave! Dunque, tu mi ami; Tu mi hai prescelta ed io d’ora innanzi niuno amerò fuori di Te. Tu sarai il mio amore, il mio tesoro, il mio modello, il mio maestro, la mia guida, la mia felicità. Con Te paziente, soffrirò pazientemente le avversità; con Te umiliata; accetterò senza lagnarmi le umiliazioni che a me manderai». È facile comprendere come l’umiltà, nell’esperienza spirituale della madre si sia tradotta in spirito di servizio e come la Madre abbia inteso vivere il Vangelo in forma non estranea agli affanni dell’uomo. La salvezza annunziata dal Vangelo, secondo il suo modus vivendi, si realizza entrando nella storia umana, facendosi carico dei problemi dell’uomo. È compito di ogni seguace di Gesù rendere le strutture della sua comunità il più possibile trasparenti di amore cristiano, per diventare interamente segno dell’impegno di Dio nel mondo.
Il cristianesimo vissuto dalla Madre si è fatto presente proprio dove non c’era più alcuna speranza umana, e dove l’impegnarsi sembrava che non giovasse più: accanto ai moribondi, ai vecchi, agli incurabili, ai dementi, ai defunti: anche là dove non c’era da aspettarsi neppure un sorriso di ringraziamento. Riporto, in merito, la testimonianza del Torriani contenuta nelle Costituzioni al n. 6: “Alla chiamata di Dio: “Tu devi diventare Madre di tanta povera gente” la nostra Fondatrice rispose con una disponibilità totale, per avvicinarsi ai più poveri, ai più sofferenti, ai più bisognosi, per servirli, consolarli e sostenerli”. E al n. 12 delle stesse Costituzioni afferma: “L’opera di Madre Michel ripete nella città eterna il messaggio di Cristo, che invita a vivere le beatitudini tra i fratelli, nell’educazione, nell’assistenza ai malati, nel servizio sociale e in altre attività, rispondendo all’appello della Chiesa”.
L’impegno profuso nel servire i fratelli sembra anticipare l’insegnamento del Vaticano II: «Noi che aderiamo a Cristo – è scritto nel messaggio al mondo dei Padri del Concilio Vaticano II – non solo non ci estraniamo dalle preoccupazioni e dalle fatiche terrene, ché anzi la fede, la speranza e la carità di Cristo ci spingono a servire i nostri fratelli, seguendo in questo l’esempio del divin Maestro che “non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt. 20,28), Così anche la Chiesa non è nata per dominare, ma per servire». In questa disponibilità al servizio, che attingeva direttamente agli esempi del Divino maestro, i contemporanei a buon diritto intravedevano tutta la ricchezza spirituale del suo mondo interiore aperto alla carità. Non sempre, infatti, il servizio si accompagna alla carità; quando ciò avviene esso dà serenità e pace. Quando l’uomo non riesce a fondare il servizio all’altro nell’immagine di Dio impressa nel volto di ogni uomo, esso si spoglia della carità e diventa la formale esecuzione di un dovere, che lascia freddi e indifferenti.
Oggi, in una società dello spettacolo e dell’apparenza, contrassegnata dalla indeterminatezza e dallo spreco, la vita esige con più forza di andare all’essenziale. In tale contesto, raccordarsi alla beata Teresa Grillo con le lenti della fede significa ridare il primato a Colui che fa la Storia, che apre le porte del Cielo e introduce i santi nella gloria del Padre, e ci eleva allo stato di figli di Dio fatti a sua immagine e somiglianza.
Sua Ecc. Mons. Vincenzo Bertolone